L’Arabia Saudita guiderà una coalizione di Stati a maggioranza islamica contro l’ISIS e “contro qualunque gruppo terroristico che ci troveremo di fronte”. Lo annuncia oggi la tv saudita, ripresa dalle principali agenzie di stampa del mondo.
Ieri pomeriggio, quando in Medio Oriente era già notte, il presidente USA Barack Obama aveva invitato gli alleati a “fare di più” contro le reti internazionali del terrorismo. Dopo la riunione al Pentagono con i vertici della sicurezza nazionale, Obama ha rivolto ai capi jihadisti un messaggio “semplice”: “Voi siete i prossimi”.
Il presidente USA ha rivolto un plauso agli alleati – ha nominato espressamente Francia, Germania, Regno Unito, Australia e Italia – ma ha ricordato che per sconfiggere l’ISIS serve che l’impegno di tutti aumenti a ritmo sostenuto.
Detto, fatto: nelle prime ore di stamattina la tv saudita annunciava la creazione della coalizione islamica. Ne faranno parte 34 stati, tra cui Turchia, Egitto, Pakistan, Malaysia e gli emirati del Golfo persico già legati a doppio filo al regno saudita attraverso il Consiglio di cooperazione del golfo (GCC). La guida strategica della coalizione e la sede del quartier generale saranno proprio a Riad.
Nelle intenzioni dei suoi promotori, la nuova coalizione sarà uno strumento di coordinamento più efficiente fra Stati già impegnati a vario titolo nella lotta all’ISIS, come Arabia saudita, Emirati arabi uniti e Qatar. Alcuni commentatori, però, dennunciano che l’egemonia saudita nella coalizione potrebbe indurre la famiglia regnante nella tentazione di impiegarla per i suoi fini geopolitici, tra cui la pluridecennale partita contro l’Iran che si gioca sullo scacchiere mediorientale.
Preoccupa in questo senso anche il fatto che molti stati membri della coalizione sono stati già impegnati a fianco di Riad in Yemen, contro i ribelli Houthi – a loro volta appoggiati da Teheran –, nelle due campagne militari intraprese da marzo scorso. È il caso di Egitto, Giordania e dei paesi del GCC. L’Arabia saudita aveva invitato il Pakistan a partecipare anche a quelle operazioni, ma in quell’occasione il parlamento di Islamabad si è opposto, imponendo la neutralità.
Tra le due fazioni yemenite – quella che fa capo all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, appoggiato dagli Houthi e da reparti lealisti dell’esercito, e quella del suo successore Abdu Rabbo Mansur Hadi, che ha il sostegno saudita e il riconoscimento della comunità internazionale – sono appena cominciate trattative di pace mediate dall’ONU, in concomitanza con l’entrata in vigore di un cessate il fuoco di una settimana. Lo ha annunciato il portavoce delle Nazioni unite Ahmad Fawzi. Per ora l’OMS ha ottenuto di poter muovere liberamente personale e forniture mediche tra le zone controllate dai due schieramenti rivali. L’inviato speciale ONU Ismail Cheikh Ahmed, riferisce Fawzi, spera di raggiungere un “cessate il fuoco permanente ed esauriente” che consenta di migliorare la “situazione umanitaria” – lo Yemen è il più povero fra i paesi arabi, e la guerra civile ha lasciato sul campo almeno seimila vittime – e “tornare a una transizione politica pacifica e ordinata”.
Sul fronte diplomatico, è attivissimo in queste ore anche il segretario di Stato USA John Kerry, che oggi ha incontrato a Mosca il suo omologo, il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Prima della sua partenza per la Russia, il New Yorker ha pubblicato una sua intervista in cui bacchetta la politica del premier israeliano Benjamin Netanyahu. “Continuare a costruire in Cisgiordania e distruggere le case delle persone con cui si sta tentando di fare la pace”, secondo Kerry, “non costituisce una risposta”: anzi, trasforma Israele e i territori occupati in “uno stato unitario che è un’entità ingestibile”.
A Mosca, invece, Kerry ha messo al centro dell’agenda la lotta al terrorismo e le crisi in Siria e in Ucraina. I due governi di USA e Russia – ha detto in conferenza stampa – concordano che i terroristi “non lasciano altra scelta alle nazioni civilizzate di unirsi e sconfiggerli”.
Nel frattempo, secondo un sondaggio AP/GFK pubblicato negli USA, per la prima volta il numero di americani favorevoli a un intervento boots-on-the-ground – cioè a un’operazione che impieghi in modo massiccio le truppe di terra, invece della campagna di bombardamenti accompagnata dall’invio di pochi specialisti – supera il numero dei contrari. Il 42% degli intervistati si è detto a favore, contro un 32% di contrari e un 22% di incerti. Occorre però tenere conto che il rilevamento è avvenuto nella scia delle stragi di Parigi e di San Bernardino.
Filippo M. Ragusa
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