Si sono dovuti attendere più di venti anni perchè si infrangessero due storici tabù: l’intangibilità del sistema bancario e la sacralità dei superstipendi dei boiardi di stato. Meglio tardi che mai direbbe qualcuno. Ma visti i precedenti di governi (come quello creativo ed immobile di Berlusconi, tragico di Monti, ed evanescente del pallido Letta solo per citare gli ultimi) sempre spudoratamente schierati in difesa del sistema del credito e dei privilegi della casta in un contesto generale di finanza allegra e sciupona, le mosse dell’esecutivo di Renzi hanno oggi il sapore di una autentica rivoluzione.
Vediamo perché. A gridare vendetta erano state alcune decisioni dell’ex ministro per l’economia Fabrizio Saccomanni, l’amico per eccellenza delle banche, che con una discutibile e truffaldina manovra aveva deciso di tassare al 12% le plusvalenze che sarebbero maturate per molti istituti di credito dalla rivalutazione delle loro partecipazioni nell’azionariato di Banca d’Italia. Era stato un autentico regalo, che ieri Renzi ha deciso di riprendersi per riportare a casa, e cioè nella casse dello stato qualcosa come un miliardo e duecento milioni di euro. E come è stato possibile il miracolo? Semplice portando quella tassazione di favore dal 12 al 26% che è poi la quota che si paga nel resto della Ue.
E’ il caso di ricordare che quella cifra rappresenta, da sola, un terzo circa, del totale degli introiti che milioni di italiani hanno pagato fino alla fine dello scorso anno per l’odiosissima Imu, l’arrogante gabella richiesta per la casa di proprietà. Solo questo dovrebbe far riflettere senza dimenticare lo stato di grazia di cui il sistema bancario ha goduto soprattutto con il professor Mario Monti che invece di razionalizzare e rendere più efficienti e competitive le banche italiane, in assoluto tra le peggiori dell’intero ambito occidentale, ha continuato a fare regali (basterebbe ricordare l’apertura obbligatoria per legge di conti correnti per i pensionati delle fasce più basse) rinnovando i fasti di un’autentica e poco trasparente corporazione. Sempre tanto protetta quanto intoccabile.
“Cominci a pagare chi non ha mai pagato” ha commentato il premier, lanciando con i fatti un chiaro segnale di inversione di tendenza verso una categoria fino a ieri praticamente inattaccabile.
Stesso discorso per i manager di Stato, i superburocrati e le loro retribuzioni da re in tempi di crisi generale mai sfiorati dal dubbio di essere casta provilegiata e solo qualche volta attaccati e affondati dalle inchieste della magistratura. Ed è stato cosi che per vedere andare a casa personaggi come il patron di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini o il superstipendiato per incarichi plurimi (ben ventiquattro) Antonio Mastrapasqua, già presidente dell’Inps si è dovuto attendere l’incidente giudiziario per costringere qualche intoccabile a mollare l’inossidabile poltrona.
Ma questo capitolo scandaloso non può non chiudersi con due parole su un altro supermanager che con meno di un milione di euro l’anno, non riesce a vivere dignitosamente: l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Mauro Moretti, ingegnere che ha iniziato la propria carriera come sindacalista della Cgil e che ora dimentica che a rilanciare le ferrovie italiane sono state le immense risorse di uno Stato che trent’anni fa decise di scommettere e vincere la grande sfida dell’alta velocità, quale scelta, economicamente valida, alternativa al trasporto aereo. E fare i grandi con bilanci che sono rimasti in rosso per decenni, saldati a piè di lista da Pantalone dopo aver operato in regime di monopolio e assenza di competitors, non consente a Moretti di usare quei toni arroganti da “guai ai vinti” lanciato al premier quando questi ha parlato di riduzione degli emolumenti ai manager di stato. Sfortuna sua che il governo abbia avuto la meglio. Ora l’amministratore delegato delle Ferrovie tragga le dovute conclusioni e faccia la scelta da lui stesso preannunciata: vada a lavorare in campagna.
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