A Venezia si è compiuta ieri la giornata dei “leoni d’oro”, uno quello assegnato quest’anno a Bertrand Tavernier, regista eclettico e artigianale, l’altro conferito nel 2011 a Marco Bellocchio, presente alla Mostra del Cinema con il suo ultimo film in concorso quest’anno, “Sangue del mio sangue”
Con quest’ultimo suo lavoro Marco Bellocchio, probabilmente uno dei migliori registi italiani, certamente uno dei più conosciuti al mondo, continua il suo irriverente discorso verso il mondo clericale e lo incarna in una dimensione metastorica e molto personale. Quello del rapporto tra fede e uomo costituisce una sorta di tormentone nella carriera cinematografica di Bellocchio, si pensi al recente “L’ora di religione”.
In “Sangue del mio sangue” il regista affronta il tema sotto la prospettiva del potere, nel passato come nel presente. Si potrebbe dire che il film in effetti racconta dell’attaccamento ad un potere del passato un tempo forte ma ormai decaduto, ma non è tutto qui. In “Sangue del mio sangue” si parla anche del tempo e dei legami che formano un filo conduttore nella storia.
Un unico nome, Federico Mai, due protagonisti che si muovono tra settecento e presente, e poi suore, monaci e un vecchio politico decaduto, sono i personaggi che popolano il panorama di questo film, in una storia complessa che intreccia passato e presente. “L’opera nasce per caso” spiega Bellocchio “dalla scoperta delle antiche prigioni di Bobbio, chiuse e abbandonate, dove viene ambientato il primo episodio che narra di Benedetta, una monaca murata viva nella prigione-convento di Santa Chiara”. “Questa storia così remota nel passato -continua il regista- mi ha suggerito infine un ritorno al presente, all’Italia di oggi, un’Italia paesana garantita e protetta dal sistema consociativo e corruttivo dei partiti e dei sindacati che la globalizzazione sta radicalmente trasformando”.
Girato negli stessi ambienti dell’infanzia del regista, a Bobbio. Il film è stato realizzato con il minimo dei costi ed ha molto del mondo personale dell’autore in quanto si parla di due fratelli gemelli. E Bellocchio aveva un gemello. Con questo film infatti il regista rivive e scandaglia un rapporto non ancora del tutto compreso e si lascia accompagnare e aiutare dalla sua stessa famiglia, fratello, moglie e figli che hanno partecipato alla sua realizzazione.
Ma si parla anche di un amore passionale e doloroso. Fino alla morte. Ma non si tratta però dell’immagine classica sviluppata tante volte nell’inesauribile ciclo di amore e morte. Bellocchio qui racconta più che altro l’amore verso una bellezza che salva e uccide.
Non salva ma in un certo senso un po’ ferisce la bellezza cadente e rifatta di Valeria Marini che all’appuntamento di Venezia si è presenta praticamente nuda alla proiezione del film. Si lascia fotografare, voluttuosamente e forse un po’ volgarmente, non curante di un corpo non più all’altezza di certe provocazioni, avvolta in un abito completamente trasparente che, inclemente, non lascia nulla all’immaginazione. Anzi una radiografia di curve eccessive e decisamente poco armoniose.
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