Carmen deve morire. L’ultima boutade registica vede Carmen, protagonista dell’omonima famosissima opera di Georges Bizet messa in scena al Teatro del Maggio musicale fiorentino, da vittima diventare carnefice, l’assassina di Don Josè: finale stravolto in nome di una oscura visione pseudo femminista che nulla ha a che fare con il femminismo, tanto che è stata “pensata” da due uomini. A parte l’idiozia dell’intento, che non rispetta l’autore, Merimée ed il compositore, Bizet, che tra l’altro sono uomini, Carmen viva ed omicida non risolve il problema della violenza sulle donne, ma costruisce una soluzione di comodo che distrae le coscienze, come da abituale vecchio spartito.
A mio avviso Carmen muore perché rappresenta un simbolo di forza di energia che, nel nome del suo anticonformismo, del suo essere libera, può e deve essere un esempio per tutte le donne. Qui il problema non sono le donne, che viceversa devono e possono attingere al carisma della protagonista dell’opera, ma è l’uomo che, affascinato e sedotto da tanta energia, oscurato da chi è convinto di aver conquistato e chiuso in una gabbia di amorosi sensi, al ritrovarsi solo perde ogni riferimento e reagisce uccidendo la sua preda. Mia o di nessuno! Questo è più o meno il mantra dei tanti, troppi vigliacchi che uccidono le donne, mariti, fidanzati, amanti che nascondono la loro orrenda natura sotto sembianze gentili per poi farla esplodere in tutta la sua violenza. Ne è un palese esempio Don Josè, molto rispettoso nei confronti della fidanzata Micaela e della madre, ma che presto rivela la sua vera natura.
Le donne nelle opere sono forti anche quando sono vittime. Conservano una grande dignità, sconosciuta invece ad alcuni personaggi maschili che nel nome del loro machismo, si trasformano in carnefici, dimostrando invece tutta la propria debolezza e sudditanza nei confronti di quelle donne che dicono di amare, e che scelgono di uccidere, non riuscendo a comprenderne la natura, la forza. Ne abbiamo messe due a confronto, diverse tra loro ma ognuna con una sua unicità che le rende esempio al quale attingere a piene mani nel percorso di crescita della consapevolezza di ogni donna: Carmen e Butterfly.
Carmen, l’eroina del dramma di Merimèe, musicato magistralmente da Bizet, incarna la passione all’ennesima potenza. Don Josè ne esce malamente come uomo e come soldato che, per seguire Carmen, diserta tradendo l’onore e la divisa, in nome di un sentimento malsano che osa chiamare amore ma che invece è una miscela maleodorante di possesso, gelosia e orgoglio ferito che lo perde trasformandolo in un assassino. Don Josè una volta lasciato dalla sua bella si trasforma in uno stalker; la segue, la minaccia, consegnandoci tutti quegli elementi di grande attualità che dimostrano come le donne, ancora oggi, non abbiano ancora compreso il proprio ruolo, la propria forza, la propria sacralità. Carmen alla fine incontra il suo assassino, ben sapendo a cosa va incontro. Quante donne accettano l’ultimo incontro, quello chiarificatore, nonostante sappiano bene che il finale è sempre uguale a se stesso. Eppure continuano a farlo, eroine e vittime, prigioniere di una tradizione millenaria che si ripete e dalla quale non riescono, evidentemente, a trarne il necessario insegnamento. Giammai Carmen cederà, libera è nata e libera morrà!. Con queste accorate parole Carmen rivendica il suo ruolo, la sua libertà, ben sapendo che firma la sua condanna a morte.
Udite udite. Carmen non ha bisogno di paladini moderni. Ella è stata vendicata da Merimèe, da Bizet che hanno tratteggiato come coprotagonista un uomo, anzi un omuncolo, Don Josè, che non può ispirare alcuna simpatia lasciando la scena alla bella gitana.
Per Madama Butterfly, Cio- Cio-San, protagonista dell’opera di Giacomo Puccini, lontana per storia e tradizione dalla fascinosa prima donna dell’opera di Bizet, l’epilogo è identico, anche se a darsi la morte, con quel Jigai vendicatore dell’onore ferito è proprio Cio-Cio-San. In questo caso non c’è la forza della bellezza, della sensualità sprigionata a piene mani, come in Carmen, ma la tenerezza di una ragazza giapponese, che, nel caso di Cio-Cio-San, sposa Benjamin Pinkerton, ufficiale della Marina militare americana credendo nell’amore eterno e che invece dal sogno delle nozze e dell’amore si risveglia in un incubo quando il gaglioffo l’abbandona senza remore, senza guardarsi indietro. Del resto per lui si è trattato solo di un gioco esotico, prendere una moglie, una casa per 99 anni, per lasciarla senza problemi, senza considerare i sentimenti, le conseguenze di un tale comportamento. Anche in questo caso, ahimè, quanta attualità. Per l’ufficiale americano è stato un passatempo, così come lo è per i predatori sessuali moderni che comprano “l’amore” delle fanciulle nelle periferie del mondo, per poi tornare alla loro vita borghese, alle proprie famiglie. Perfidi ladri di sogni che approfittano di chi ha dovuto rinunciare, spesso per bisogno, alla spensieratezza della fanciullezza, come Butterfly simbolo dell’amore infranto. La piccola farfalla, in preda all’illusione, attende sulla collina quel fil di fumo che alla fine appare, ma che la porterà alla morte, distruggendo sogni e speranze.
Butterfly esplica la sua forza, rivendica il suo onore mettendo fine alla propria vita, secondo le sue tradizioni, le sue convinzioni. Dall’amore per Pinkerton è nato un bambino che l’ufficiale americano vuole portarle via. Sarà la moglie americana a presentarsi alla porta di Butterfly. Pinkerton ancora una volta si comporta da vigliacco, non ha il coraggio di affrontare la realtà perché questo significherebbe fare i conti con la propria coscienza. Cosa può fare la piccola Farfalla dalle ali spezzate, ripudiata, reietta, lei che per amore ha rinnegato la sua famiglia e la sua religione, con un bambino, destinato anche lui ad una vita ai margini. Sceglie di lasciarlo andare “a lui lo potrò dare”, riesce a dire. Quando Pinkerton la chiamerà, costretto dal coraggio di Butterfly ad affrontarla, la sua voce accorata, sarà il presagio dell’inevitabile finale. Mentre lui va per incontrarla e farsi consegnare il frutto di quell’amore che amore non era, Butterfly saluta il suo bambino, lo benda e si dà la morte.
Da Butterfly si possono trarre insegnamenti di forza e dignità. Ovviamente ogni opera va considerata nel suo contesto, il periodo storico al quale fa riferimento, con le sue usanze e tradizioni, ma ancora una volta la donna è sì prigioniera di una condizione che la vorrebbe sottomessa, ma alla quale lei non si uniforma ribellandosi con forza. Carmen va incontro alla morte a testa alta, così come Butterfly, a testa alta va verso il suo destino. Stravolgere il finale di un’opera, in questo caso Carmen, non ha senso. Non è un manifesto contro il femminicidio, ma un’operazione di marketing pubblicitario che lascia il tempo che trova. Qualcuno ha dichiarato che le opere andrebbero rilette in chiave moderna. MI permetto di dissentire. C’è posto per nuove opere, nuovi soggetti e nuova musica; ma per carità, si lascino stare Carmen, Butterfly, Norma e le altre dove sono e come sono.
Le eroine delle opere liriche possono servire come esempio. Dalle loro tragiche storie si possono trarre spunti di riflessione sul perché ancora molte donne non riescano a scegliere in libertà come vivere e come amare. Ci si può chiedere perché la donna sia ancora prigioniera di retaggi dai quali non riesce a liberarsi. Ai giorni potremmo consigliare a Butterfly di farsi dare gli alimenti, intelligente ed ironica provocazione lanciata dall’amica Fufi Sonnino nel corso del partecipato incontro dal titolo “Sessismo all’Opera”. Forse l’oscena proposta potrebbe allettare qualche “regista” a corto d’idee, ma come Carmen, anche Butterfly deve andare incontro al suo destino per diventare simbolo di speranza per le donne e gli uomini del futuro.
Domitilla Baldoni
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