«Ragazza sta pensando alle cose che iniziano e alle cose che finiscono, alle cose che iniziano perché qualcosa finisce, alle cose che finiscono perché qualcosa inizi».
Sull’eterno ciclo di distruzione e rigenerazione e sul senso del tempo specificamente incardinato alla dimensione personale del vissuto è incentrato Chiamami anche se è notte, romanzo d’esordio di Michela Monferrini, finalista al Premio Calvino 2012 e recentemente pubblicato da Mondadori nella collana «Strade blu».
Nel suo romanzo ricorre spesso una data, il 6 gennaio…
Le motivazioni per cui ho scritto il libro sono in parte autobiografiche. Il 6 gennaio 2011, mentre compivo 25 anni, ho ricevuto in regalo dei fogli di giornale datati 6 gennaio 1986. Mi sono ritrovata a pensare al senso del tempo e soprattutto al fatto che per la prima volta potevo ricordare un giorno – e lo potevo ricordare esattamente – di quindici anni prima. A venticinque anni è come se si cominciasse a sentire il peso del tempo. Questa è stata la molla. Detto ciò, non vorrei che il libro venisse considerato alla stregua di un’opera esclusivamente autobiografica, in quanto ho tentato di raccontare eventi macroscopici della vita di tutti, in cui ciascuno si può ritrovare.
È infatti molto presente il senso del tempo, sia quello avvertito dai personaggi (il tempo a due velocità di Ragazza e del cane Charlie), sia in una scrittura contrassegnata da condensazione ed elissi…
Se dovessi riassumere in poche battute l’argomento del libro, direi che cerca di raccontare in modo personale il passaggio del tempo. Ricorre l’immagine di alcuni orologi: orologi a volte inceppati, a volte rotti, a volte anarchici, che seguono un tempo tutto loro. Mi servivano come simboli che rappresentassero la funzione organizzativa cui il tempo da essi scandito assolve. Il mio tentativo, in realtà, è stato cercare di esprimere un tempo più prossimo alla nostra percezione che alla cadenza meccanica degli orologi. Ad un certo punto Bambina dice: «Voglio vedere se mi riesce una magia. Adesso chiudo gli occhi, e quando li riapro sono passati gli anni e siamo ancora tutti qui»: il lettore gira pagina e sono trascorsi quindici anni. Nella nostra percezione, a mio avviso, l’impronta del tempo trascorso può avvicinarsi di più alla velocità con cui si gira una pagina piuttosto che al peso degli anni vissuti giorno dopo giorno. Le letture che mi hanno più affascinata in tal senso sono quelle del primo ventennio del Novecento. Posso citare un esempio a parer mio inarrivabile: Al faro di Virginia Woolf, e in particolare le pagine della sezione centrale. Sono trascorsi molti anni rispetto alla prima parte del libro e raccontando una casa vuota la scrittrice concentra una moltitudine di avvenimenti (morti, nascite, malattie, successi) in una decina di pagine, mentre nella prima parte la narrazione di un’estenuata giornata occupava uno spazio di gran lunga superiore. Mi intrigava questo gioco del tempo; il mio non è certo un tentativo d’emulazione, ma si tratta di una modalità narrativa che ho assorbito a tal punto che non saprei più raccontare il tempo in maniera differente.
Nel suo romanzo non compaiono nomi propri, ma solo appellativi generici, quasi a voler da una parte assegnare alla storia un valore paradigmatico e dall’altra marcare una distanza dai personaggi. Perché questa scelta?
La risposta riguarda ancora l’autobiografia. Trattandosi non di personaggi di fantasia ma di persone, mi sono posta un problema: come posso rubargli anche i nomi oltre ai particolari della loro vita che ho impiegato ai fini della storia? Di contro, come faccio ad assegnare loro dei nomi inventati se queste persone esistono? Ho risolto utilizzando dei nomi di ruolo, indicativi appunto dei diversi ruoli che giochiamo nella società. È anche un modo per proteggerli: ricordo di aver letto nello stesso periodo il romanzo Lo scrittore fantasma di Philip Roth e il racconto Mobili di famiglia di Alice Munro e in entrambe le storie si narrava di uno scrittore alle prese con parenti infuriati che avevano ritrovato narrati i loro fatti personali. Forse queste letture, lo dico sorridendo, mi hanno condizionata. Vi sono tuttavia delle eccezioni, come quella della badante della nonna, per cui ho usato un nome inventato, e quella dei cani, Laika e Charlie: a loro ho restituito i loro veri nomi: ogni cane è una storia a sé e merita realtà.
Come si accorda la tensione verso la sincerità e la verità con un meccanismo, quello letterario, caratterizzato dall’artificio?
Ci sono scrittori che inventano e scrittori che attingono principalmente dalla realtà, anche quando non sembra. Per citare di nuovo Roth, ad esempio: potrebbe apparire come uno scrittore d’invenzione, ma quello che racconta proviene dal vissuto, come si sa Nathan Zuckerman è lui. Io non ho mai avuto una particolare vocazione verso l’invenzione narrativa, ma ciò non è detto che sia una limitazione: spesso la spinta con cui si scrive senza pensare all’intreccio è un contrassegno di autenticità. Ora ho in mente nuove idee in cui riconosco un’immaginazione che in questo libro, radicandosi così tanto nell’autobiografia, è assente: un’immaginazione che tuttavia non diventa mai fantasia e che in qualche modo si lega pur sempre al mio vissuto.
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento.
Δ
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
© Copyright 2020 - Scelgo News - Direttore Vincenzo Cirillo - numero di registrazione n. 313 del 27-10-2011 | P.iva 14091371006 | Privacy Policy