Sull’estuario del fiume Churchill, nel nord del Canada, lungo la costa della Baia di Hudson, sorge la cittadina di Churchill. Abitata da un migliaio di persone e conosciuta come “ la città dell’orso bianco “
Tutte le volte che in televisione vedete un orso bianco che corre lungo una banchisa di ghiaccio in cerca di cibo, o i suoi piccoli che giocano tra di loro rotolandosi nella neve, sappiate che al 90 per cento si tratta di Churchill.
Ma andiamo con ordine. Sono arrivato a Churchill a bordo di un piccolo aereo confortevole dell’Air Canada proveniente da Winnipeg, la capitale provinciale del Manitoba. Dieci minuti di pullman ed ecomi in “citta’”. Al primo impatto sembra di arrivare in uno di quei villaggi dei film western messi su alla svelta dai cercatori d’oro in cerca di fortuna. Case fatte di lamiere e di legno. Una larga strada principale, dritta ed ampia, che attraversa e divide in due l’agglomerato urbano. Costruzioni basse con tetti spioventi messe tutte in fila, una dietro l’altra senza un grande sforzo di progetto urbanistico e, tutto intorno, uno spazio infinito fatto di tundra, di ghiaccio e di acqua.
Ero stato invitato dalla compagnia aerea canadese a visitare questi luoghi e, devo ammettere, avevo accettato più per cortesia che per convinzione. Mi ero detto “chissà che squallore quella estesa di terra piatta, fatta solo di ghiaccio e con le temperature che sfiorano i – 40° ”. Ebbene, leggete fino in fondo questo racconto e converrete con me che questa idea preconcetta, era una stupidaggine grande come le distese di ghiaccio del Manitoba. Il primo shock è dato dalla temperatura. Avendo trascorso la serata in un pub in compagnia di amici allegri e di una birra scura servita a litri, una volta arrivato il momento di tornare in albergo, ci siamo accorti che dai + 40° del locale si passava ai – 40° circa dell’esterno con un escursione termica di circa 80°. Forse esagero un po’ ma credetemi “ la botta” è veramente notevole. Se ti capita di stringere a mani nude un metallo, difficilmente riuscirai a staccarlo dalle mani.
Il giorno successivo sarà una delle giornate più emozionanti mai vissute nella mia vita di viaggiatore. In un campo attiguo alla foce del fiume, mi aspetta un elicottero per portarmi a visitare, dall’alto, un centinaio di chilometri della costa a sud-est di Chuchill.
Il racconto che mi fa il pilota, nonché membro del WWF locale, è veramente affascinante.
“Gli orsi bianchi, quando arriva la stagione invernale, salgono su blocchi di ghiaccio a caccia di prede. Questi blocchi, spinti dalla corrente , percorrono tutta la costa per 100/200 chilometri finchè, al termine della stagione, gli orsi riguadagnano la terra ferma e iniziano a percorrere a ritroso la strada verso Churchill, questa volta lungo la costa, sulla terraferma. E’ un vero esodo. Intere famiglie di orsi, padre madre e figli, risalgono lentamente per ricominciare il ciclo della caccia e quindi della vita, appena la stagione sarà propizia.”
Sorvoliamo a poche decine di metri le “ famiglie” che arrancano tra la neve ed il ghiaccio, incuranti forse del fastidio che stiamo arrecando loro, ma affascinati dalla maestosità, dalla leggiadria e dalla bellezza dei loro movimenti. Da lontano, ma solo da lontano, sembrano dei pelouche soffici e teneri, da stringere tra le braccia. Mi dice ancora il pilota che, visto il lungo cammino che devono percorrere, spesso saltano i pasti per accelerare la marcia, cosa questa che li rende particolarmente affamati e che quindi non è consigliabile una ispezione a contatto ravvicinato.
Lentamente e rumorosamente il mio elicottero comincia a perdere quota fino ad atterrare sul tetto di una Tundra Buggy, cioè di una specie di mega jeep/camper blindata, con ruote alte circa due metri ed un’apertura anche sul tetto per fare entrare in tutta sicurezza coloro, come me, che arrivano in elicottero. Queste strane vetture vengono utilizzate dai turisti per vedere da pochi metri i plantigradi e, spesso, poterli fotografare da pochi centimetri, specialmente quando, in posizione eretta, poggiano le zampe anteriori sul bordo dei Buggy fino ad annusare i finestrini blindati.
Il volo di ritorno a Churchill mi offre uno spettacolo incredibile della tundra sottostante. Una miriade di piccoli laghetti disseminati in una pianura di una vastità enorme e un territorio con una vegetazione bassa prevalentemente composta da piante grasse. Mi affascina il colore dell’insieme fatto da rossi scuri, marroni, viola e verde. La prima impressione mi riporta ad un tessuto di Missoni che, sono sicuro, si sia ispirato alla tundra nella creazione dei suoi modelli.
Tornato in albergo trovo, insieme alla chiave della camera, un biglietto dove leggo che per l’indomani sono invitato a visitare un villaggio indiano (nativi americani come li chiamano qui) a pochi chilometri da Churchill, costruito lungo le coste del fiume omonimo. Le tende sono diventate baracche ma lo spirito rimane lo stesso.
La tribù é quella degli Inuit che, combattutti, sterminati e cacciati dalle loro terre ai tempi dei colonizzatori europei/americani, si sono raccolti in piccole comunità di pescatori, mantenendo intatte le loro radici e le loro usanze. Ci sediamo in circolo a gambe incrociate e assistiamo ad una danza tribale. Un dolcissimo e struggente canto pellirossa ci riporta in un’atmosfera malinconica e misteriosa avvolti dal fumo dei calumet e accompagnati dal ritmo incessante e ripetuto dei tam-tam. Quello che avevamo visto fino ad allora del Manitoba,ci aveva pienamente appagato ed affascinato. Non immaginavamo però che quello che ci attendeva nei giorni successivi sarebbe stato bello e affascinante quanto, se non più, di quello che avevamo già alle nostre spalle.
L’appuntamento era fissato sul molo principale del villaggio. La luce del sole faceva da cornice ad un’altra giornata che si rivelerà indimenticabile. Saliti su una barca di pescatori, adattata per i turisti, prendiamo il largo per incontrare le beluga, le famose balene bianche, tipiche di pochi posti privilegiati del mondo e questo é uno di quelli.
Sono prima una poi diventano quattro,cinque. Girano intorno alla nostra barca e ci soffiano non più spaventate quasi che ormai tutto facesse parte di una rappresentazione concordata con il Ministero del Turismo Canadese. E’ comunque uno spettacolo eccezionale e i cetacei sono di una bellezza veramente unica.
Siamo così arrivati alla fine della nostra avventura. Ma, quando tutto faceva credere che il nostro bagaglio di informazioni, sensazioni ed emozioni fosse oramai pieno, squilla il telefono della mia camera. E’ il mio amico canadese che mi dice di scendere perché c’è una macchina che ci aspetta. Sono circa le 23 dell’ultima sera a Churchill. Cos’altro succede? Sulla strada dell’aeroporto, a pochi chilometri di distanza, immerso nel buio pesto della notte, arriviamo ad un edificio di due piani il cui tetto formato da una cupola di vetro, ricorda quello degli osservatori stellari presenti anche nelle nostre città. Ci sediamo a naso in su sotto la volta di vetro. Sta per iniziare uno spettacolo della natura che non sarà più possibile cancellare dalla nostra memoria: l’aurora boreale.
Fasci di luce verde e rossa e gialla rompono il buio della notte, dipingendo e balenando nel cielo. Il loro andamento sinuoso e serpeggiante mi portano alla memoria le evoluzione dei nastri colorati agitati artisticamente nella ginnastica ritmica.
Mi portano via con la forza, non avrei abbandonato volontariamente la mia postazione, almeno fino alle luci dell’alba, per nessuna ragione al mondo.
Questa volta è veramente tutto, mi imbarco per Winnipeg ancora sopraffatto dalle emozioni rese ancora più grandi dalla sorpresa di aver assistito, concentrato in un solo viaggio, a tanta bellezza e tanta conoscenza. Di tutto questo devo ringraziare la natura ed il buon Dio che ce l’ha messa a disposizione. Ora sta a noi essere degni di un regalo così grande.
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