Adesso, dopo tre giorni di proteste (quasi dieci se vi si aggiungono quelle dei soli studenti), la tensione per le strade di Hong Kong, ex colonia britannica e dal 1997 Regione Amministrativa Speciale della Cina, è giunta alle stelle: il capo del governo locale (‘chief executive’ nella nomenclatura di Hong Kong), Leung Chun-ying ha chiesto la fine “immediata” delle proteste contro la morsa cinese sulle aspirazioni democratiche della Regione ed il ritiro dei manifestanti dalle strade. Questi ultimi, però, hanno respinto la richiesta e ribadito la richiesta di dimissioni di Leung, schierando ancora decine di migliaia di persone per le vie di Hong Kong.
Leung Chun-ying, il ‘chief executive’ di Hong Kong
“I leader della protesta avevano promesso che avrebbero messo fine al movimento se fosse diventato violento. Sto ora chiedendo loro di rispettare la promessa e di fermare immediatamente questa campagna“, il duro monito di Leung. Cui non è mancato l’immediato appoggio di Pechino: “Sosteniamo totalmente il governo della regione autonoma speciale di Hong Kong per affrontare il problema delle “attività illegali” dei manifestanti, ha detto la portavoce della diplomazia cinese Hua Chunyin.
I manifestanti invadono le strade di Hong Kong
Ma i leader di Occupy Central (la più importante sigla di protestanti) hanno già respinto la richiesta e, anzi, hanno rilanciato chiedendo le dimissioni del ‘governatore’: “Se Leung Chun-ying annunciasse le sue dimissioni questa occupazione al limite sarà sospesa temporaneamente per un breve periodo per poi decidere la prossima mossa“, ha dichiarato il co-fondatore del movimento Chan Kin-man, aggiungendo che questo “sarebbe un segnale molto importante che al meno il governo ha cambiato il suo atteggiamento (intransigente) e vuole risolvere la crisi“. Richiesta di dimissioni, ovviamente, respinta al mittente da Leung. La promessa di ritirare dalle strade la temuta polizia antisommossa, questo il massimo delle ‘concessioni’ cui si è dichiarato disponibile il ‘chief executive’. Poco, troppo poco per placare la protesta (comunque pacifica) dei manifestanti e per rasserenare gli animi.
Il nodo del contendere era stata la decisione di Pechino di consentire la presentazione di soli due o, al massimo, tre candidati alle elezioni per il nuovo ‘chief executive’ da tenersi ad Hong Kong nel 2017, le prime a suffragio universale. Peccato che la Cina abbia imposto che i candidati dovranno essere ‘approvati’ da una commissione elettorale i cui membri sono nominati direttamente da Pechino. Per gli studenti che, ormai una decina di giorni fa avevano avviato la protesta ora rilanciata e appoggiata da tutta la popolazione, movimento Occupy Central in testa, questa significava disattendere la Basic Law, la Costituzione di Hong Kong vigente dal 1997 (anno del ritorno di Hong Kong alla Cina) il cui principio cardine, voluto da Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, era ed è quello di avere “un paese, due sistemi“. In sostanza, mentre la Cina avrebbe continuato ad essere governata dalla ‘dittatura democratica’ del Partito Comunista, Hong Kong avrebbe avuto un sistema pluripartitico e il suffragio universale.
Contro questa decisione gli studenti della Regione Amministrativa Speciale hanno inscenato proteste protrattesi per una settimana che sono culminate con l’irruzione nell’edificio che ospita la sede del governo locale nella cosiddetta “civic square” ad Admirality, l’area dell’isola di Hong Kong adiacente a Central, il quartiere delle grandi imprese e delle grandi banche internazionali che hanno qui una base fondamentale per le loro operazioni in Cina e nel resto dell’Asia. La reazione della polizia è stata molto dura e gli studenti, tra cui il 17enne fondatore del movimento studentesco ‘Scholarism’, Joshua Wong, sono stati arrestati. Di qui, l’allargamento della protesta a macchia d’olio con il coinvolgimenti dapprima delle formazioni politiche democratiche e poi dell’intera popolazione, comprese persone di età anche molto avanzata. A nulla è valso, nel tentativo di placare gli animi, il successivo rilascio di Wong. Al momento, risultano fermati 78 manifestanti. Ma ciò che più ha colpito l’opinione pubblica mondiale sono state le immagini diffuse soprattutto sui social (a proposito, pare che sia stato sventato anche un tentativo di bloccare l’utilizzo di Facebook) in cui si vede chiaramente la polizia locale fare uso di lacrimogeni e spray urticante contro una folla inerme che, poi, si è ‘armata’ solo di ombrelli e cellophane per proteggersi. Dietro ai dimostranti, poi, gruppi di volontari raccoglievano la spazzatura, dividendola per il riciclo.
Le reazioni del mondo occidentale, non si sono fatte attendere: “Gli Stati Uniti sostengono le aspirazioni della popolazione di Hong Kong e seguono da molto vicino gli sviluppi della situazione“, ha affermato Josh Earnest, portavoce del presidente Barack Obama. Lanciando poi un appello alle autorità di Pechino: “Mostrate moderazione“. E sul sito della Casa Bianca è stata lanciata una petizione rivolta al presidente perché faccia il massimo delle pressioni sulla Cina perché mantenga la promessa di elezioni democratiche nell’ex colonia democratica. E perché si eviti un secondo massacro proprio dopo quello di Tienanmen. Già quasi 200.000 le firme. Anche Londra Londra – come fa sapere il Foreign Office – ha espresso preoccupazione riguardo la situazione a Hong Kong e ha invitato le parti in causa ad impegnarsi in “discussioni costruttive“.
A Pechino non hanno, però, affatto gradito: il ministero degli Esteri ha, infatti, inviato un chiaro messaggio a Washington: “non vi immischiate“ negli affari di Hong Kong, perché le proteste sono una questione interna. Niente ingerenze, dunque. Un monito rivolto anche ad altri Paesi che si sono schierati apertamente dalla parte dei manifestanti. Insomma – secondo molti osservatori – dopo il restaurato clima da `guerra fredda´ con Mosca, ora il rischio è che la crisi di Hong Kong possa vanificare anche i pochi passi in avanti compiuti da Barack Obama e Xi Jin Ping per aprire una nuova era nelle relazioni tra Usa e Cina.
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