Ha tutta l’aria di essere un gioco al rialzo, quello portato avanti sui dazi doganali dal presidente USA Donald Trump. La politica protezionista di Washington, infatti, iniziata con l’aumento dei dazi del 25% alle importazioni di acciaio e del 10% a quelle di alluminio, non si giocherà, però, solo su queste materie. “Saremo molto onesti e flessibili – ha spiegato Trump – ma dobbiamo proteggere i lavoratori americani, come ho detto che avrei fatto in campagna elettorale”. E se esistono possibili deroghe per paesi come Messico e Canada, qualora siano pronti a ridiscutere il trattato Nafta, esistono anche “dei nemici che si sono approfittati enormemente di noi da anni su commercio e difesa. Se guardiamo la Nato, la Germania paga l’1% e noi paghiamo il 4,2% di un pil molto più importante. Questo non è giusto”, ha sottolineato ancora il presidente americano. Nel mirino dell’amministrazione statunitense ci sarebbero anche altri prodotti, primi fra questi la proprietà intellettuale. Un colpo da 60 miliardi di dollari soprattutto per i prodotti Made in China: il riferimento, nemmeno troppo velato, è nei confronti della pratica di Pechino di imporre la cessione dei segreti tecnologici in cambio dell’autorizzazione ad operare sul territorio cinese. La Cina che non gioca da molto tempo secondo le regole, si è guadagnata una risposta dura sul fronte delle politiche commerciali”, come ha dichiarato Larry Kudlow, consigliere economico del presidente. Non è così, però: secondo il portavoce del ministro degli Esteri cinese Lu Kang “la Cina si oppone risolutamente a qualsiasi tipo di misure protezionistiche unilaterali”.“Se gli Stati Uniti intraprendono azioni che danneggiano gli interessi della Cina – ha aggiunto – la Cina dovrà adottare misure per proteggere con fermezza i suoi diritti”. Anche in Europa si profilano contraccolpi importanti. Angela Merkel chiede “un atteggiamento unitario da parte dell’Europa”, valutando se “stabilire nuovi accordi commerciali con nuovi partner”. Nelle scorse settimane il commissario europeo al commercio Cecilia Malmström ha espresso preoccupazione per “migliaia di posti di lavoro” a rischio proprio per via delle scelte di Washington. Perfino in Italia si valutano i contraccolpi di una guerra commerciale con gli Usa. L’Istat ha analizzato i dati export delle regioni italiane nel 2017 sia verso i paesi UE che extra UE. I numeri sono incoraggianti e i trend complessivamente positivi, tanto che “nel quarto trimestre 2017, rispetto ai tre mesi precedenti, l’export risulta in crescita, seppure con intensità significativamente diverse, per tutte le ripartizioni territoriali: +8,2% per l’Italia meridionale e insulare, +5,7% per le regioni nord-orientali, +1,7% per le regioni nord-occidentali e +0,4% per l’Italia centrale” spiegano gli analisti. I mercati di sbocco dell’export vedono in Lombardia, Emilia, Piemonte e Veneto il maggior traino per le vendite nei paesi dell’Unione, mentre verso i mercati extra Ue “le regioni che determinano in misura maggiore questo risultato sono: Lombardia (+6,9%), Lazio (+37,2%), Piemonte (+8,3%), Sicilia (+39,3%) ed Emilia-Romagna (+5,4%). Si segnala un aumento anche per Sardegna (+33,4%) e Abruzzo (+41,5%)”. Nel dettaglio dei traffici commerciali con gli USA, “l’analisi regionale per mercati di sbocco mostra che nel 2017 le vendite dal Lazio e dalla Lombardia verso gli Stati Uniti (rispettivamente +120,9% e +12,8%)”. Se le scelte di Trump dovessero portare davvero a uno scontro internazionale sul piano del commercio, lo scenario di rischio più plausibile sarebbe quello di una importante frenata e una conseguente contrazione dei volumi di affari. Una contrazione, peraltro, consistente. Basti pensare che nelle percentuali Istat vanno annoverati il boom del polo automobilistico di Cassino, con vendite passate da 43 milioni del 2016 agli 801 milioni del 2017; o la fiammata fatta registrare dalle vendite dei prodotti farmaceutici nel teramano, cresciute dai 259mila euro del 2016 ai 601 milioni del 2017. Rischio concreto anche per il settore food. Gli Usa rappresentano un target commerciale di circa il 10% dell’export nostrano, un volume economico di oltre 4 miliardi di euro. I prodotti dell’agroalimentare italiano, già posizionati al top nella fascia di mercato e di prezzo, dovrebbero fare i conti con dei rincari che aumenterebbero ancora i costi a tutta la filiera e, soprattutto, ai consumatori finali. Il rischio è la proliferazione di prodotti italian sounding, a totale discapito delle eccellenze controllate e garantite dei nostri territori.
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