Le elezioni politiche iraniane non hanno ancora un vincitore ufficiale a tre giorni dal voto. Faranno la differenza i ballottaggi di fine aprile, che assegneranno 52 dei 290 seggi del Majlis. Ma anche i risultati parziali, pubblicati oggi dal giornale Etemad, suggeriscono un balzo in avanti dei riformisti e dei moderati. Tra i conservatori perdono terreno i più intransigenti, mentre tengono la posizione i sostenitori del presidente Hassan Rouhani.
I seggi assegnati a candidati riformisti per ora sono 96, cinque in più dei 91 del Fronte unito per i princìpi, l’alleanza di conservatori e integralisti al timone della scorsa legislatura. 26 seggi sono stati assegnati a liste minori – tra cui i rappresentanti delle minoranze religiose, che per legge devono avere almeno un deputato ciascuna – e 25 a candidati indipendenti. Le donne elette finora sono tredici.
Vira su posizioni più concilianti anche l’Assemblea degli Esperti, composta dagli 88 membri che in caso di morte della Guida suprema sono incaricati di nominare il suo successore. L’assemblea è in carica per otto anni: non è escluso che durante il suo prossimo mandato si ponga il problema di chi succederà all’ayatollah Ali Khamenei, che ha 76 anni e non gode di ottima salute.
Anche qui le urne sono state generose con i moderati, fra cui Rouhani e l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, considerato il candidato naturale dei riformisti per la successione a Khamenei. Solo undicesimo il presidente del potentissimo Consiglio dei guardiani, Ahmad Jannati.
Decisivi per la svolta sono stati i voti di donne, giovani – più della metà degli iraniani ha meno di 35 anni – e degli abitanti di Teheran: i riformisti hanno vinto in tutte e trenta le circoscrizioni in cui è divisa la capitale.
Rouhani, com’è sua abitudine, ha ringraziato i suoi sostenitori via Twitter: “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto”, si legge sul suo profilo in inglese.
Alla vigilia delle elezioni il Consiglio dei guardiani – l’organo, composto da sei giuristi laici e sei religiosi, che ha il potere di approvare o bocciare tutte le candidature – aveva respinto circa metà dei dodicimila che si erano presentati alle elezioni con programmi incentrati sulle riforme. I Guardiani erano stati ancora più scrupolosi con le liste dell’Assemblea degli Esperti: hanno tagliato quattro candidati su cinque, comprese tutte le donne e Hassan Khomeini, il nipote dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, leader della rivoluzione del 1978-79 e prima Guida suprema della Repubblica islamica.
Ma la disinvoltura politica di Rouhani e l’immensa popolarità del suo governo, soprattutto a Teheran, hanno fatto la differenza. Il presidente raccoglie i frutti del trionfo diplomatico dell’accordo sul programma nucleare. Per tutta la scorsa legislatura, i principalisti duri e puri che finora detenevano una maggioranza schiacciante del Majlis hanno provato a esercitare ogni forma di ostruzionismo. Ma Rouhani ha saputo resistere alle provocazioni e costruirsi una rete di appoggi trasversale agli schieramenti tradizionali, incassando, ad esempio, l’appoggio del presidente del Parlamento, il conservatore Ali Larijani. Alcuni commentatori si sono spinti a dire che la linea di demarcazione di queste elezioni non sia passata tra conservatori e riformisti, ma tra favorevoli e contrari all’accordo che ha riportato l’Iran nel salotto buono della comunità internazionale.
Archiviati gli ostruzionismi a oltranza della scorsa legislatura, ora Rouhani si troverà a gestire più potere e più responsabilità.
La prima sfida è quella militare. Varie parti del Medio Oriente sono flagellate da conflitti foraggiati dalle potenze regionali e mondiali. l’Iran gioca a tutti questi tavoli e si trova spesso di fronte l’Arabia Saudita, alleato chiave degli USA. Ma ora, dopo che l’amministrazione Obama si è spesa tanto per spuntare l’accordo sul programma nucleare iraniano, è finito il tempo dell’antiamericanismo a oltranza: bisogna trattare con Washington senza cedere troppo sul campo ai suoi alleati.
Non meno importanti sono le sfide economiche. L’uscita dalla lista degli stati-canaglia può portare massicci investimenti stranieri, di cui l’asfittica economia della Repubblica islamica ha tanto più bisogno in un periodo in cui il prezzo del greggio è tanto basso. Il 75% del PIL iraniano è in mano a partecipate statali e fondazioni religiose, e la casta degli amministratori ha già fatto quadrato contro i capitali stranieri, sposando le tentazioni isolazioniste di quella parte dei conservatori che non si è fatta affascinare dal presidente.
La battaglia contro la corruzione dilagante e la disoccupazione di massa – stimata intorno al 30%, in mancanza di dati ufficiali – si annuncia durissima. Nell’anno e mezzo che lo separa dalla fine del suo mandato, e dalla possibile rielezione, Rouhani dovrà dimostrare di saper navigare fra le aperture sui diritti civili richieste dai riformisti – ad esempio sulla liberazione di Mir-Hossein Musavi e Mehdi Karroubi, agli arresti domiciliari dal 2011 dopo aver guidato le proteste contro l’allora presidente Mahmud Ahmadinejad, più volte promessa – e i timori dei suoi sostenitori appartenenti al fronte dei conservatori.
Filippo M. Ragusa
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