E’ uno dei 37 film della selezione ufficiale della Festa del cinema di Roma, Land of mine, stupisce e colpisce con un tema che sembrerebbe ampiamente sfruttato, i tragici epiloghi della fine della seconda guerra mondiale, da una prospettiva, quella della Danimarca, che ai più dice assai poco sull’evento. E invece coinvolge, commuove e convince.
Tutto il film del danese Martin Zandvlet si sviluppa sulla linea del doppio significato del titolo. Land of mine si può tradurre sia come “la mia terra” che come “terra delle mine”. E sono in effetti questi due i temi portanti del film. Da un lato la terra intesa come patria, ma anche come casa e ambiente da salvaguardare, dall’altro le mine, atroce prodotto della guerra che ancora oggi miete vittime, soprattutto innocenti, anche a conflitto finito. Nel maggio del 1945, dopo la resa nazista, gli stati alleati cominciarono bonificare le zone di guerra dalle mine posizionate dai Tedeschi lungo il cosiddetto Vallo Atlantico sulle coste dell’Europa continentale per difendersi da un possibile attacco della Gran Bretagna. Per farlo il governo danese ricorse ai prigionieri di guerra tedeschi, perlopiù giovani inesperti soldati arruolati dalla milizia nazionale tedesca sul finire della guerra.
Al di là dello scontato tema facilmente intuibile del rovesciamento degli oppressori in oppressi, della vendetta e del perpetrarsi infinito dell’odio tra razze, Land of mine pone l’accento sull’umanità dei personaggi e sul loro personale vissuto in un contesto in cui la guerra, anche se ormai terminata, è il vero il nemico e la vera causa di sofferenze e paure. Per questo Land of mine può permettersi di proporre al pubblico una situazione dura e angosciante senza risultare insostenibilmente pesante.
Di fatto il contesto del film vede i protagonisti, un gruppo di 14 ragazzi tedeschi, alle prese con il difficile compito di disinnescare un enorme numero di mine sepolte sotto la sabbia. Una ad una, stesi supini lungo la spiaggia i giovani devono cercare le mine inesplose con il solo aiuto di una mazza per individuarle e delle proprie mani per disinnescarle. La situazione è appesantita dalla totale carenza di viveri che, quasi per sfregio, l’esercito degli alleati nega ai prigionieri tedeschi. Eppure in una tale tragedia i ragazzi riescono ad andare avanti stringendo un forte legame solidale tra loro e trovando forza nella bellezza naturale del luogo che li ospita. Così la fotografia, che indugia spesso in campi lunghi sullo splendido paesaggio della costa danese, offre anche allo spettatore un rassicurante sollievo che bilancia la tragedia dei protagonisti.
La storia trova il suo pieno compimento nella figura del sergente danese, Roland Moller, che riesce a scoprire nei giovani prigionieri, non più il nemico da punire, ma le persone che sono con i loro sogni e le loro debolezze e sofferenze. Lo stesso interprete confessa di aver compiuto lo stesso percorso del suo personaggio nell’approfondire il rapporto con i ragazzi. “Ho dovuto mantenere un atteggiamento sempre autorevole nei loro confronti,” dice Moller “perché dovevo insegnare loro a fare squadra, ma solo conoscendoli sono riuscito a conquistarmi il loro rispetto. In questo modo abbiamo potuto vivere con intensità reale ogni scena”.
Dunque un film che al di là della crudezza e della violenza di certe scene dall’impatto forte, consente riflessioni profonde sulle conseguenze della guerra, sull’importanza di riuscire a vedere la persona prima del gruppo etnico o politico che essa rappresenta, della solidarietà anche nella sofferenza e del perdono per poter superare ogni tragedia e ricominciare a guardare al futuro con speranza.
Vania Amitrano
Laureata in Lettere, amante dell’arte, dello spettacolo e delle scienze umane, autrice di testi di critica cinematografica e televisiva. Ha insegnato nella scuola pubblica e privata; da anni scrive ed esplora con passione le sconfinate possibilità della comunicazione nel web.
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