La geopolitica ruba la scena all’ambiente nella seconda giornata della conferenza sul clima organizzata dall’ONU a Parigi. Oggi il presidente USA Barack Obama ha incontrato il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan. I due capi di Stato hanno parlato “del modo in cui la Turchia e la Russia potrebbero lavorare per ridurre le tensioni” nate dopo l’abbattimento del jet russo accusato di aver sconfinato in Turchia, ai confini con la Siria.
Ieri sera il presidente russo Vladimir Putin ha scoperto le carte, accusando apertamente Ankara di aver abbattuto il jet “per assicurare le forniture illegali di petrolio dall’ISIS alla Turchia”. Come riferisce l’agenzia di stampa nazionale TASS, Putin sostiene di avere “informazioni aggiuntive che confermano che il petrolio proveniente dalle zone controllate dall’ISIS viene consegnato in Turchia su scala industriale”. Erdogan ha risposto definendo quest’accusa “immorale”, e promettendo di dimettersi se venisse provata. “Se ci sono i documenti devono mostrarli, vediamoli”, ha detto il presidente turco nella conferenza stampa: “Se questo viene dimostrato, io non rimarrò nel mio incarico”. La Russia, a sua volta, ha annunciato sanzioni economiche contro la Turchia che colpiranno le importazioni di generi alimentari e i voli charter turistici.
“Abbiamo tutti un nemico comune che è l’esercito islamico”, ha detto invece Obama, “e voglio essere sicuro che ci concentriamo su questa minaccia”. Da parte loro, gli USA sono pronti a inviare nuove forze speciali in Iraq e anche in Siria: lo ha annunciato oggi il segretario alla Difesa, Ash Carter, in un’audizione al Congresso.
Obama, per la verità, ha parlato anche di ambiente. Oggi il presidente degli USA ha precisato la sua proposta di un accordo sul clima che obblighi le parti a rispettarlo, accolta ieri in modo sfavorevole da indiani e cinesi. Obama non intende fissare gli obiettivi specifici affidati ai singoli stati nel testo del trattato, ma lasciare mano libera ai governi nella loro determinazione. Ad essere vincolanti sarebbero invece i meccanismi di revisione che verificherebbero periodicamente – per esempio ogni cinque anni – il rispetto di quegli obiettivi fissati in autonomia. Un accordo del genere, notano gli osservatori, potrebbe passare anche al Congresso, dove i democratici sostenitori di Obama sono in minoranza e la maggioranza repubblicana è restia ad accettare qualsiasi imposizione per trattato.
“Sarà difficile mettere d’accordo 200 nazioni – afferma il Presidente – ma sono convinto che faremo grandi cose”. Anche perché l’alternativa è inquietante: lo scioglimento delle calotte polari rischia di far finire sott’acqua molte delle città più popolate del mondo. Che il rischio esista si sa da tempo, ma per avere sotto gli occhi le proporzioni della catastrofe nulla vale quanto il video diffuso da Climate Central, organizzazione USA che si occupa di sensibilizzare il pubblico sul riscaldamento globale. Il filmato dura meno di un minuto, ma illustra cosa avverrebbe in diverse città al livello del mare – come Londra, Mumbai, Sydney o Rio de Janeiro – se la temperatura del mondo si alzasse di quattro gradi. In alcuni casi, oltretutto, le fosche ricostruzioni degli esperti sono messe a confronto con immagini recenti delle città allagate, in situazioni che non stenteremmo a dire di emergenza.
L’aumento del livello del mare avrebbe effetti tanto più gravi sui numerosissimi stati e staterelli insulari del Pacifico e dei Caraibi, alcuni dei quali “potrebbero scomparire interamente”, dice Obama – che è nato a Honolulu, nelle Hawaii, e si è definito “un isolano” – creando un’altra emergenza umanitaria. Il presidente USA ha annunciato di aver stanziato un pacchetto di aiuti da 52 milioni di dollari per aiutare i governi di questi stati a contrastare l’impatto del cambiamento climatico.
La lotta all’ISIS, però, tiene banco anche nei discorsi della Cancelliera federale tedesca Angela Merkel e del premier britannico David Cameron. I Parlamenti di Berlino e Londra voteranno domani sulla proposta di partecipare a raid contro i jihadisti in Siria annunciata nelle settimane scorse dai rispettivi governi. La Merkel in particolare – che si è ben guardata dall’usare la parola “guerra”, preferendo la perifrasi “impegno militare” – ha ricordato che la Germania fa parte della coalizione già dall’anno scorso.
Intanto dal Medio Oriente arriva la notizia della liberazione di Saja al-Dulaimi, ex moglie del sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, e di una loro figlia. Le due donne erano detenute in Libano e sono state rilasciate in uno scambio di prigionieri con il Fronte al-Nusra, organizzazione affiliata ad al-Qaeda che in Siria, dopo un tentativo fallimentare di confluire nell’ISIS, da due anni combatte anche contro lo Stato islamico.
Alla conferenza di Parigi non sono mancati i tentativi di distensione fra stati i cui rapporti sono tutt’altro che amichevoli. È vero, chi sperava in un faccia a faccia tra Putin ed Erdogan è destinato a rimanere deluso, a meno di straordinari colpi di scena. Si è segnalata invece l’attività diplomatica del premier del Pakistan, Nawaz Sharif, che ha incontrato il suo omologo indiano Narendra Modi e il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani.
Si è vista anche la prima stretta di mano in pubblico negli ultimi cinque anni fra i premier di Israele, Benjamin Netanyahu, e dell’ANP, Abu Mazen. Netanyahu ha incontrato anche l’Alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini. Tel Aviv ha deciso di interrompere la cooperazione con Bruxelles sul processo di pace dopo la decisione delle istituzioni comunitarie di etichettare a parte le merci prodotte nelle colonie israeliane fondate contro il diritto internazionale nei Territori occupati. Secondo la Mogherini l’incontro è stato fruttuoso: l’ex ministro degli Esteri italiano ha definito i rapporti con Israele “buoni, ampi e profondi”.
Filippo M. Ragusa
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