Festa ciociara allo Juventus Stadium
E’ un campionato da emozioni forti e sorprese a getto continuo quello che sta vedendo le cosiddette grandi tutte in affanno tranne una che, pur giocando un calcio davvero stentato, si trova lassù in vetta a punteggio ancora pieno: la “formichInter” di Mancini che ha battuto (ancora con il minimo scarto) un Verona che, pur privato di Toni (ne avrà per due mesi, in bocca al lupo!) alla vigilia e costretto a sostituire in corso d’opera gli acciaccati Pazzini e Sala, non avrebbe affatto demeritato quantomeno un punto a S. Siro. Che, invece, ringrazia il più inatteso degli eroi, quel Felipe Melo che, se sanzionato per il “colpo proibito” di domenica, questa partita non avrebbe dovuto nemmeno giocarla. Sia quel che sia, ora i nerazzurri si trovano con +7 sulla Roma, +9 sul Napoli e un incredibile +10 sui campioni d’Italia. Sono andate in archivio solo 5 giornate, è vero. Ma è altrettanto vero che si tratta già di un solco considerevole. Ancor più in ragione proprio dell’esiguo numero di gare disputate.
Quanto alle sorprese “made in provincia”, ricordate l’ormai arcinota intemerata di Lotito (“Certo, una serie A con Carpi e Frosinone…“)? Bene, neanche a farlo apposto le due neopromosse hanno messo a segno il loro colpo più significativo (che, nel caso dei ciociari, coincide anche con il primo punticino in classifica) in simultanea. Gli emiliani costringendo all’inusuale 0-0 (il primo in assoluto registrato dall’inizio del torneo) l’attacco atomico di un Napoli reduce da due gioiose mattanze consecutive. Gli uomini di Stellone, addirittura, riuscendo a resistere ai furiosi quanto disordinati arrembaggi juventini (già privi di Morata e Mandzukic, presentatisi con Dybala in panchina; Allegri perché?) dapprima limitando il passivo ad un solo gol di scarto e poi, tentando il tutto per tutto sul calcio d’angolo finale con il pari in mischia colto da quel Blanchard che solo tre mesi e mezzo fa era a Berlino a sostenere proprio i bianconeri nella finale di Champions. Coincidenze beffarde che, però, aiutano a capire quando un anno non è il tuo. Tacendo del brillante terzo posto in solitaria del Sassuolo, corsaro a Palermo (rete decisiva dell’ex laziale Floccari) e del quarto in coabitazione con Samp e Toro del Chievo, vincitore di misura proprio sui granata.
L’incredibile pareggio di Blanchard in pieno recupero
Una sorpresa di minori proporzioni, ma pur sempre una sorpresa, è stata poi quella scaturita dal campo di Marassi dove la Roma paradossalmente migliore vista sin qui (al pari di quella vittoriosa sulla Juve), ha dovuto cedere le armi di fronte ad un’orgogliosa Sampdoria, specchio del suo attuale tecnico, Walter Zenga, a sua volta specchio del predecessore, Sinisa Mihajlovic (a proposito, complimenti per l’operazione-recupero di SuperMario). Una Roma che Garcia ha messo in campo, anche agevolato nelle scelte dagli infortuni di Rudiger e Totti, con la formazione più equilibrata possibile, con Dzeko a fare il centroboa e De Rossi al fianco di Manolas. Rispetto alle tremebonde prove di Verona, Frosinone e all’ultima contro il Sassuolo, un’altra squadra. Ma, complice anche uno straordinario Viviano, molto poco cinica davanti e con i soliti errori individuali dietro a rovinare il tutto. Stavolta è toccato al centrale greco commettere l’errore decisivo: il suo goffo tentativo di spazzare l’assist di Eder (suo l’1-0 e 6° rete in campionato, Conte ne sarà più che lieto) ha regalato i tre punti ai blucerchiati. In quest’occasione non si possono muovere appunti al tecnico giallorosso per un utilizzo estremo del turn over (ma noi non gliene avevamo mossi, di così pesanti perlomeno, neppure dopo il 2-2 con il Sassuolo), né per la personalità e lo spirito d’iniziativa dimostrati dai giocatori: anzi, i 24 tiri totali verso lo specchio e i 18 calci d’angolo raccontano, più di ogni altra cifra, di una partita a senso unico. Quel che manca ancora, però, e sul punto non smetteremo mai di insistere, è la velocità nella circolazione della palla. E, se Nainggolan tira umanamente il fiato, il problema diventa ancor più evidente. Questo la vera critica da muovere a Garcia che, da uomo intelligente qual è, aveva detto alla vigilia: “Non criticatemi per il turn over ma per come gioca la squadra”. Appunto.
Felipe Anderson: era ora!
Uno sconsolato Manolas non si dà pace
L’intrigante incrocio Roma-Genova ha fornito anche un’altra indicazione apparentemente contraddittoria. La Lazio più in difficoltà delle ultime stagioni, reduce dall’umiliazione di Napoli e con le prime contestazioni quasi a cancellare il tanto di buono costruito l’anno scorso, è riuscita ad infrangere il tabù-Genoa che si era fatto beffe dei biancocelesti negli ultimi otto confronti in campionato. Un’autentica maledizione. Che i non molti tifosi accorsi all’Olimpico hanno temuto di rivivere quando, dopo soli 5 minuti, l’attivissimo Rincòn faceva partire un fendente che superava Marchetti. Salvo incocciare nel palo interno alla destra del portierone. Per chi crede nel destino, forse il segnale di un’inversione di rotta. In realtà, per tutta la prima frazione è stata la Lazio a tentare, ma con scarso costrutto, di fare gioco (comunque, Cataldi, pur senza far nulla di trascendentale, ha garantito una pulizia nell’uscita del pallone sconosciuta ai piedi “problematici” del confuso e confusionario Onazi) e il Genoa a creare i pericoli maggiori con il solito Rincòn, con Goran Pandev, ex dal dente avvelenato (nel senso letterale del termine, vista la cattiveria messa nel finale in quell’inutile quanto violenta gomitata rifilata a Mauricio per un rosso sacrosanto) e con l’ex romanista Tachtsidis a costringere agli straordinari Marchetti soprattutto sui piazzati. Ma il gol, quello che conta, lo metteva a segno Djordjevic, finalmente in campo dal 1′, bravissimo ad incunearsi nella difesa genoana eludendone il fuorigioco (bravo anche Lulic, reduce da un periodo veramente cupo, a fornirgli l’assist). Per la soddisfazione sua e di Pioli che, dopo aver dovuto leggere per tre giorni i dettagliati Cv di Montella, Donadoni e Mazzarri, ha coraggiosamente scelto il serbo, anziché il più collaudato Keita che pure pareva in vantaggio. La partita, però, rimane ben viva fino al suo decisivo punto di svolta: il doppio giallo rimediato in soli tre minuti, frutto anche della (finalmente!) ritrovata verve di Felipe Anderson. Il 2-0 con un colpo da biliardo piazzato sotto il “sette” da fuori area è una perla assoluta del brasiliano (peraltro quasi fotocopia della rete apriscatole al Mapei Stadium dello scorso campionato), importante anche perché consente al fantasista di rompere un digiuno che si protraeva da aprile scorso. Ma è, soprattutto, la prestazione dell’esterno, la sua voglia di tornare a rischiare le giocate non di routine (compresi i dribbling in un fazzoletto) e le rispolverate accelerazioni palla al piede a confortare tutto il depresso ambiente biancoceleste. Sì, forse uno dei protagonisti assoluti della passata stagione è tornato. Bene anche Djordjevic che, gol a parte, si è mosso bene e al quale manca solo di riacquistare un po’ di velocità nello spunto. Da rivedere, però, non solo la difesa ma l’intero atteggiamento della squadra in fase di possesso palla altrui. Dietro si balla ancora troppo. E con avversari di caratura superiore (e con meno indisponibili) a questo Genoa, pagare dazio diventa inevitabile.
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