“Totò Riina è malato e ha diritto ad una morte dignitosa”. Lo chiedono i suoi legali che hanno presentato al Tribunale di sorveglianza di Bologna nuova istanza (finora è sempre stata respinta) per il differimento della pena, dopo che la Cassazione ha sancito che il ‘diritto a morire dignitosamente’ va assicurato ad ogni detenuto.
La prima sezione penale della Cassazione lunedì 5 giugno ha reso pubblica una sentenza sulle condizioni di detenzione di Salvatore “Totò” Riina, boss mafioso che dal 1992 è stato condannato a diversi ergastoli, arrestato dopo una lunga latitanza e in carcere da 24 anni. Totò Riina, che oggi ha 86 anni, è malato; il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (dal 2013 Riina è detenuto a Parma) in cui chiede la sospensione della pena o almeno gli arresti domiciliari. Il tribunale di Bologna non ha accolto la richiesta. La Cassazione, con la sentenza numero 27766, ha risposto invece annullando con rinvio l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna: questo non significa che per Riina sia stato deciso un differimento della pena ma che la decisione finale non è ancora stata presa.
Ma è subito gazzarra a livello politico e mediatico. Senza contare le reazioni indignate dei familiari delle vittime del boss dei boss. Da Rita Dalla Chiesa a Sonia Alfano, dal figlio di Pio La Torre ai parenti delle vittime dell’attentato di via dei Georgofili. Reazioni più che comprensibili per Francesco Maisto, dal 2008 al dicembre 2015 presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna competente per il carcere di Parma in cui sono rinchiusi molti detenuti al 41 bis: “Comprensibile che chi ha sofferto per mano di Riina sia contrario a qualsiasi atto di clemenza nei confronti del boss, ma per la decisione sul differimento pena o sui domiciliari la Legge non prevede un intervento o un parere, come in altri casi, delle vittime. È in gioco soltanto la potestà punitiva dello Stato di diritto”. Don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera contro tutte le mafie, sottolinea invece la coesistenza di “un diritto del singolo, che va salvaguardato, ma anche di una più ampia logica di giustizia di cui non si possono dimenticare le profonde e indiscutibili ragioni”. Per Rosy Bindi, presidente dell’ Antimafia, invece, non è necessario trasferirlo perché le cure non gli mancano e Matteo Salvini tuona sul “fine pena mai, per Riina e per quelli come lui’. Per il difensore del boss, Luca Cianferoni, invece, la decisione della Cassazione è un ‘precedente importantissimo’. Così pure per il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte: “Il fatto che la Cassazione riesca a porre un tema umanitario rispetto a un soggetto che ha dimostrato con la sua condotta criminale il massimo della disumanità rende quasi orgogliosi di una giustizia che riesce a ragionare in termini di diritti nei confronti di chi ha negato diritti agli altri”.
Nel maggio del 2016 il tribunale di sorveglianza di Bologna – che decide sulle richieste di pene alternative alla detenzione in carcere presentate dai condannati – aveva escluso il differimento della pena per Totò Riina, dicendo che dalle relazioni sanitarie presentate emergevano sì le sue gravi condizioni di salute, ma non tali da rendere inefficace un intervento in ambiente carcerario. L’ordinanza diceva che il «continuo monitoraggio» di Riina aveva già portato a diversi suoi ricoveri in ospedale. Gli episodi di crisi cardiaca di Riina erano sotto controllo in carcere e «lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, essendo il rischio dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni altro cittadino, anche in stato di libertà». Infine, a sostegno del rigetto dell’istanza, i giudici di Bologna avevano presentato motivazioni che avevano a che fare con la notevole pericolosità di Riina e con le conseguenti esigenze di sicurezza e incolumità pubblica.
L’ordinanza del tribunale di sorveglianza sarebbe poi contraddittoria, secondo la Cassazione, perché da una parte afferma la compatibilità dello stato di detenzione di Riina con il regime carcerario e dall’altra «evidenzia espressamente le deficienze strutturali della Casa di reclusione di Parma», dove Riina si trova, affermando che queste stesse deficienze sono però irrilevanti. C’è infine, per la Cassazione, un’ultima carenza nella decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna: non si spiega «con motivazione adeguata» come la pericolosità di Riina e «il suo indiscusso spessore criminale», che vengono riaffermati, possano e debbano considerarsi attuali «in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato del decadimento dello stesso». La Cassazione conclude che le eccezionali condizioni di pericolosità di Riina debbano essere basate «su precisi argomenti di fatto rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad interagire il pericolo di recidivanza».
La Cassazione ha dunque annullato l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna con rinvio: ha dato cioè un giudizio di legittimità sul caso e non di merito, affermando che il tribunale di Bologna dovrà verificare di nuovo, motivando adeguatamente, l’eventuale compatibilità delle condizioni generali di salute di Riina con la detenzione carceraria. E dovrà farlo tenendo conto, nei confronti di Riina, del rispetto dei criteri ribaditi dalla Suprema Corte e dei principi stabiliti dalla Costituzione.
La sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Totò Riina è ineccepibile sotto il profilo giuridico – commenta il Partito Radicale- ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una Suprema Corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico”. “La forza di uno Stato non risiede nella sua ‘terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a se stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totó Rina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire è lo Stato di diritto”, conclude la nota del Partito Radicale.
Nel rigettare le istanze per il differimento pena per motivi di salute e per la detenzione domiciliare di Totò ‘U curtu, il tribunale di Sorveglianza di Bologna nel 2014 aveva ritenuto “insussistente” alcun “vulnus alla tutela del diritto alla salute del condannato”. “Quanto alla pericolosità sociale” – diceva la decisione dei giudici bolognesi – “la caratura criminale” di Riina non consentiva “una prognosi di assenza di pericolo di recidiva ove si consideri la tipologia di reati commessi, non necessariamente implicante prestanza fisica”. La condizione di detenzione di Riina – diceva allora l’ordinanza del collegio della Sorveglianza, emessa a meta’ giugno 2014 e poi impugnata in Cassazione dalla difesa – non costituiva “alcun ostacolo alla praticabilità degli accertamenti e degli interventi terapeutici reputati necessari dai sanitari, anche in via di emergenza, sia col ricorso al servizio di guardia medica 24 ore su 24”. Questo, “tenuto conto peraltro che il Servizio Sanitario e’ organizzato in modo uniforme a livello nazionale in termini di protocollo di pronto intervento, con adeguato percorso terapeutico anche nelle situazioni di emergenze cardiologiche”. “Il detenuto – ricordavano infine i giudici – dispone di un servizio di guardia medica 24 ore su 24 e la sezione 41 bis può contare su un medico ad essa dedicato”.
Come ha confermato il Sappe, il Sindacato autonomo Polizia penitenziaria: “L’attuale sistema penitenziario non viola il diritto alla dignità umana, anche sotto il profilo dell’assistenza sanitaria che è garantita ad ogni detenuto, noto e meno noto. Ci sono importanti Centri clinici presso diverse carceri italiane che assolvono bene a questo. Ma se dovesse rendersi necessario, le cure sono garantite presso Ospedali civili, in alcuni dei quali sono operativi appositi Reparti detentivi nei quali prestano servizio appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria”.
A.B.
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