Dopo quattro anni e mezzo di guerra civile, centinaia di migliaia di vittime e almeno quattro milioni di profughi, perfino definire la situazione della Siria è difficile, e attribuire responsabilità a questa o quella parte è un lusso. A meno che non si goda di un punto di vista altamente privilegiato, come quello del presidente (a vita) Bashar al-Assad.
In un’intervista concessa ai media russi dal suo quartier generale di Damasco, il presidentissimo non fa mistero delle sue posizioni. La crisi umanitaria che ha costretto milioni di disperati a scappare rischiando la vita? Tutta colpa dell’Europa, che sostiene i terroristi. Gli oppositori al regime? Tutti pericolosi estremisti. Le truppe iraniane attive in Siria? Solo uno scambio di specialisti fra Stati amici.
Il suo governo sarebbe un alleato chiave dell’Occidente nella lotta al terrorismo, ragiona Assad. Certo, a patto che l’Occidente si converta in blocco alla sua personalissima definizione di “terrorismo”, che include più o meno chiunque non appoggi incondizionatamente il suo governo in Siria o nei dintorni.
“L’Europa chiama i terroristi ‘moderati’ e li divide in gruppi”, ma in realtà “sono tutti estremisti”, affonda Assad. A quel punto diventa facile accusare “paesi come Turchia, Qatar e Arabia saudita, così come Francia, Stati Uniti e altri Stati occidentali” di sostenere il terrorismo. E logico denunciare le loro ipocrisie: “Non ci si può opporre ai terroristi e stare allo stesso tempo dalla loro parte”.
“Sappiamo tutti che Jabhat al-Nusra e l’ISIS ricevono armi, denaro e volontari dalla Turchia, che mantiene stretti rapporti con l’Occidente”, continua Assad. Diversissimo invece il discorso sull’Iran: non esiste alcun “invio di unità militari iraniane in Siria”, sostiene il presidente – tutte invenzioni dei soliti media occidentali –, ma solo “uno scambio di specialisti militari fra la Siria e l’Iran”.
Assad ne ha anche per la coalizione internazionale guidata dagli USA, che nonostante bombardi da mesi le posizioni dell’ISIS, “non è stata capace di prevenire l’espansione dello Stato islamico”.
Perché possa avere successo una Ginevra 3, un terzo ciclo di negoziati dopo il fallimento dei primi due, la comunità internazionale dovrà tenere conto dei dieci punti stilati lo scorso febbraio a Mosca sotto gli auspici di Vladimir Putin. Punti che, ad esempio, vieterebbero qualsiasi intervento militare straniero non approvato dal presidente e non santificato dall'”espressione libera e democratica della volontà del popolo siriano”.
Il capo di Stato, infatti, “assume il potere con il consenso del popolo attraverso le elezioni e se lascia lo fa su richiesta del popolo, e non per decisione degli USA, del Consiglio di sicurezza dell’ONU o della conferenza di Ginevra”, spiega Assad, che ha ereditato la presidenza nel 2000 dal padre Hafiz. “Se il popolo desidera che il presidente rimanga, lui rimane, altrimenti dovrebbe lasciare immediatamente: questa è la mia posizione di principio su questo tema”.
Il suo tentativo di rilanciarsi salendo in cattedra e lanciandosi in argomentazioni che spaziano dall’ovvio all’incredibile ricorda gli scritti di una vecchia conoscenza dell’Occidente, il colonnello Muammar Gheddafi. Assad dovrebbe sperare di non ripetere la sua traiettoria, nell’interesse di se stesso – il dittatore libico fu deposto e ucciso nel 2011 dagli oppositori, con il contributo determinante dell’Occidente – e del suo paese: in Libia la guerra civile non è mai finita, anche se ha cambiato più volte interpreti, e il collasso totale delle striminzite strutture dello Stato gheddafiano ha ridotto il Paese all’anarchia e permesso a terroristi, mercenari e trafficanti di cose e persone di operare indisturbati.
La Siria ovviamente è diversissima dalla Libia, ma anche lì la disintegrazione del tessuto sociale provocata dalla guerra non lascia immaginare un futuro di pace e prosperità. E anche lì nella definizione dei prossimi assetti potrebbe giocare un ruolo fondamentale la Francia.
Nel 2011, l’allora presidente transalpino Nicolas Sarkozy fu il leader occidentale più deciso e più coinvolto nell’armare e nell’assistere i ribelli libici che si opponevano al regime di Gheddafi. Oggi il suo successore François Hollande potrebbe essere tentato di mettersi negli stessi panni. O almeno è quanto sembra di poter capire dagli annunci delle ultime settimane, secondo i quali l’Armée de l’air sarebbe stata sul punto di bombardare le postazioni dell’ISIS in territorio siriano.
Oggi il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian è tornato a ripetere che i caccia multifunzione Rafale dell’aviazione francese colpiranno i primi obiettivi di terra “nelle prossime settimane”. Lunedì Hollande aveva definito i bombardamenti “necessari” alla luce delle missioni di ricognizione compiute negli ultimi giorni.
Intanto la BBC online ha dato notizia dei primi tre raid australiani contro le postazioni dell’autoproclamato Stato islamico.
Nel frattempo fonti vicine ai ribelli denunciano l’arrivo di truppe russe a Hama, il che confermerebbe la tesi per cui Mosca avrebbe deciso di schierare l’esercito per dare man forte all’alleato Assad. A sostegno della stessa tesi verrebbero le immagini satellitari pubblicate ieri dal Pentagono, che mostrano nuove installazioni militari russe – una vera e propria fortezza destinata a fare da base logistica – costruite nell’aeroporto militare di Latakia. Secondo il Cremlino i timori americani sarebbero infondati e i convogli russi trasporterebbero aiuti umanitari.
Hama, nella Siria centrale, non è particolarmente vicina al fronte dei jihadisti. È però sotto pressione da parte delle truppe dell’Esercito siriano libero, la più potente – ma anche la più eterogenea – coalizione di milizie in lotta contro il regime, che nelle settimane scorse ha preso il controllo di tutta la provincia di Idlib, ai confini con il Libano.
Hama è importante anche dal punto di vista simbolico: è la roccaforte delle opposizioni islamiste al regime di Damasco, teatro di un cruento bombardamento – ventimila vittime, secondo stime dell’epoca – deciso da Assad senior nel 1982 per stroncare una rivolta appoggiata dai Fratelli musulmani.
Intanto ad Aleppo si continua a morire. L’agenzia di stampa filogovernativa Sana riferisce di venti morti e un centinaio di feriti in un attacco missilistico, e non dimentica di attribuirlo ai “terroristi”. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, ONG con sede a Londra e posizioni politiche vicine all’opposizione, riferisce più dettagli: i razzi sarebbero caduti su tre quartieri controllati dalle forze filogovernative. Secondo l’Osservatorio però il bilancio è più grave: i feriti sarebbero 150, i morti non meno di 38, fra cui 14 bambini.
Filippo M. Ragusa
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