Ora è ufficiale: Donald Trump è il candidato repubblicano alle presidenziali USA del prossimo 8 novembre. La convention di Cleveland ha preso atto del risultato delle primarie, stravinte dal miliardario newyorkese.
È rimasto deluso, quindi, chi si aspettava che i decani del Grand Old Party gli dessero battaglia fino all’ultimo. La vecchia guardia repubblicana si è divisa tra chi ha marcato visita a Cleveland – ad esempio gli ex presidenti Bush padre e figlio e i due candidati battuti da Obama nel 2008 e nel 2012, John McCain e Mitt Romney – e chi si è rassegnato a sostenere Trump per il bene del partito, dal presidente Reince Priebus allo speaker della Camera Paul Ryan. A opporsi a oltranza sono rimasti solo pochi irriducibili.
Quello andato in scena a Cleveland, comunque, è anche un trionfo dello stile Trump contro l’establishment repubblicano. All’inizio della campagna sembrava impossibile che il miliardario riuscisse a scalare le gerarchie del partito. Invece i suoi modi accesi e le sue uscite politicamente scorrette – contro le donne, i musulmani, gli immigrati latinoamericani, i rifugiati siriani – lo hanno imposto all’attenzione di tutti, ed è riuscito a farsi votare da tanti che senza di lui, probabilmente, non avrebbero neanche pensato di partecipare alle primarie.
La sua vittoria, più che la causa, è un sintomo della crisi del partito che fu di Lincoln. All’interno delle strutture del GOP, oggi, da quella crisi non si salva nessuno. Se ne dev’essere accorto meglio di tutti Ryan: ieri ha provato a fare bella figura con le generazioni più giovani pubblicando su Instagram un selfie con gli stagisti del Congresso, ma l’operazione gli si è ritorta contro, con grande clamore del web, quando gli hanno fatto notare che fra le decine di ragazze e ragazzi alle sue spalle non c’era una sola faccia di colore, dettaglio quanto mai attuale dopo i disordini e le violenze delle scorse settimane.
Di fronte a tutto questo, gli elettori non aspettavano altro che un “podestà forestiero”. E Trump, intervenendo al momento giusto, si è alzato dal tavolo di gioco con tutta la posta. A Cleveland, di fronte ai notabili del partito, mentre nell’aria si diffondevano le note di New York New York – sarebbe stata adatta allo scopo anche We Are the Champions, ma ogni volta che la usa i Queen superstiti minacciano l’insurrezione –, a festeggiarlo c’erano la moglie Melania e i quattro figli maggiori nati dai suoi due matrimoni precedenti.
“È un grande onore essere nominato per la candidatura repubblicana alla presidenza degli USA”, ha twittato il miliardario. “Lavorerò sodo e non vi deluderò mai”. Per poi concludere con uno slogan nazionalista a caratteri cubitali: “Prima l’America!”
La prossima settimana, a Philadelphia, il Partito Democratico ufficializzerà la candidatura di Hillary Clinton. Chiusa la fase delle lotte intestine per l’investitura, con il rivale Bernie Sanders che alla fine ha dichiarato il suo appoggio all’ex first lady e Segretario di Stato, resta da stabilire chi affiancherà la Clinton come aspirante vicepresidente. Circola con una certa insistenza il nome di Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts – nel seggio che fu appannaggio di Ted Kennedy – ed ex consigliera economica di Barack Obama, per un inedito ticket tutto al femminile.
F.M.R.
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