Alfredo Di Stefano con le 5 Coppe deinCampioni conquistate con il Real Madrid
A 88 anni la “saeta rubia” si è fermata. Per sempre. Lo ha tradito quel cuore che lui ha messo in campo in ogni occasione in cui ha calcato un prato, cioè fino a 40 anni suonati. Il malore è sopraggiunto, il giorno dopo il suo compleanno, all’uscita da un ristorante di Madrid vicino alla casa di una vita, quel Santiago Bernabèu che fece ribollire di passione per oltre dieci anni, da giocatore, e che poi continuò a frequentare da allenatore prima, da dirigente poi, legando indelebilmente il suo nome a quello della squadra del XX secolo, il Real Madrid di cui era divenuto il presidente onorario. “Era al principio, durante e alla fine delle giocate da gol, e segnava reti di tutti i colori“, scrisse di lui la grande penna uruguaiana di Eduardo Galeano.
Un Di Stefano giovanissimo con Josè Manuel Moreno ai tempi della “maquina” del River
Già, era ovunque, don Alfredo. Il primo vero giocatore moderno, universale, in technicolor quando le poche immagini che mandava la tv erano rigorosamente in bianco e nero. Totale quando il “calcio totale” dell’Olanda era ancora di là da venire. In grado di arretrare davanti alla difesa, prender palla, smistarla e ripartire per andare a concludere in proprio o per imbeccare il Puskas, il Rial o il Gento di turno. Perchè il suo cuore, oltre che generoso, era anche forte come quello di un toro. Un giocatore baciato da un talento sublime e per questo giustamente accostato a Pelè e a Maradona, ma superiore ai due diòscuri per versatilità, visione di gioco e capacità di corsa e resistenza.”Sapevo che c’erano in giro giocatori che, nel singolo aspetto del gioco (tiro con il sinistro, con il destro, colpo di testa, passaggio) potevano valere 10 ed essere superiori a me. Ma io arrivavo a 9 in tutte le voci“, amava rispondere all’inflazionatissima domanda su chi fosse il migliore di sempre. Tanti giocatori, infatti, hanno fatto cieco affidamento sulle proprie qualità naturali, Di Stefano no. Lui non si accontentava e ci lavorava sopra con feroce determinazione, sino a costruirsi un fisico perfetto. Tecnica sopraffina, ma anche tanto sudore alla base dei suoi successi. Qualcosa di simile si era visto anche nei nostri stadi ma un destino vigliacco impedì a Valentino Mazzola, il giocatore più completo della storia del calcio italiano, di avere la soddisfazione di misurarsi con la “saeta rubia”. Questo privilegio fece appena in tempo ad averlo il figlio del capitano del Grande Torino, Sandro Mazzola, che condusse l’Inter alla sua prima affermazione continentale nella finale del Prater di Vienna nel 1964. Fu autore di una doppietta, il “baffo”, in quell’epico 3-1. Di fronte, il Real Madrid. Lo squadrone capitanato proprio dall’immenso don Alfredo, giunto, a 38 anni, alla sua ultima recita in maglia “blanca”. “Nel sottopassaggio, prima di scendere in campo, cercavo con lo sguardo Alfredo Di Stefano. Non lo avevo mai visto dal vivo. Lo avevo sempre e solo ammirato in tv, ad un bar sotto casa dove davano le finali di Coppa dei Campioni, e quando lo vidi lì, accanto a me, mi sembrò infinito. Di due metri. Mi bloccai. Poi, Luisito Suarez, uomo di grande esperienza ( e che aveva incontrato più volte Di Stefano quando vestiva il blaugrana del Barça, ndr), mi toccò la spalla e mi disse: noi stiamo andando in campo, vieni anche tu o poi ti porto l’autografo di don Alfredo?“, il simpatico aneddoto che Mazzola jr ama raccontare ogni volta che gli viene chiesto di Alfredo Di Stefano.
Una statua: il giusto tributo per un fuoriclasse
Una delle più micidiali coppie d’attacco di sempre: Di Stefano e il “colonnello” Ferenc Puskas
E fu proprio in quelle “notti magiche” di Coppa dei Campioni, quando le immagini televisive erano scarne e la tv non trasmetteva calcio internazionale di ogni risma come oggi, che si alimentò la leggenda della “saeta rubia” e del suo fantastico Real Madrid. Kopa, Di Stefano, Santamaria, Gento, Rial e dopo di lui Puskas. Un’orchestra di fuoriclasse. Don Alfredo ne era il direttore. Una squadra, quella di un altro don, Santiago Bernabèu, ex gloria “merengue” e all’epoca presidentissimo, vicino, peraltro, a Francisco Franco, che volle fare del Real un’ambasciata internazionale del franchismo. Di Stefano arrivò al Chamartìn (all’epoca lo stadio del Real non si chiamava ancora Bernabèu) il 23 settembre 1953. E, anche se può sembrare incredibile oggi, la “casa blanca” non era affatto uno squadrone. Non vinceva la Liga da vent’anni e a dominare la scena era l’odiato Barcellona, guidato dalle magie di un altro fenomeno, il giramondo Ladislao Kubala. Di Stefano fu al centro di un “casus belli” che avrebbe avvelenato ulteriormente i rapporti tra i due club, alimentando una rivalità non solo sportiva che dura fino ai giorni nostri e che, probabilmente, non finirà mai. Bernabèu si accorda con la squadra di appartenenza di Di Stefano, i Millonarios di Bogotà, in Colombia, mentre il Barcellona con il River Plate di Buenos Aires, società proprietaria del cartellino del giocatore. La federazione spagnola entrò nel panico e dovette intervenire anche la Fifa. Alla fine della fiera, si pervenne alla soluzione salomonica di far firmare a don Alfredo un contratto di quattro anni: due con il Real e due con il Barça. Ad anni alterni. L’orgoglio catalano non poteva consentire un compromesso del genere (ma le versioni al riguardo sono molteplici) e rinunciò all’idea di comporre un tandem da sogno con Kubala. Per la gioia madridista. Di lì in poi la storia del Real cambiò. Ed ebbe inizio l’epopea di una delle formazioni che sono rimaste nell’immaginario collettivo di tutti gli appassionati. Al primo Clàsico tra le due corazzate con Di Stefano in campo, il Real s’impone 5-0 e don Alfredo va a segno due volte. 8 volte campione della Liga, 1 Copa del Rey, 2 Coppe Latine, 5 volte (di cui 4 consecutive) “Pichichi” (capocannoniere) della Liga, ma, soprattutto, 5 Coppe dei Campioni. Consecutive. Nelle prime cinque edizioni di un torneo che fu proprio Bernabèu tra i più convinti a volere, non digerendo la prosopopea della stampa britannica che acclamava il Wolverhampton come “campione d’Europa” sulla scorta di alcune vittoriose amichevoli internazionali di prestigio. I soliti inglesi: campioni a parole prima ancora di dimostrarlo sul campo. Nelle 5 finali disputate, Alfredo Di Stefano andò sempre a segno. Ne avrebbe fatti 49, di gol, in 58 apparizioni, nella “sua” Coppa dei Campioni. Numeri da record che resistettero per oltre quarant’anni. A corredo di questa fantastica carriera internazionale con i “blancos” anche la Coppa Intercontinentale, vinta nella sua prima edizione di fronte ad un altro squadrone di quegli anni: l’uruguaiano Penarol di Montevidèo.
In gol contro la Fiorentina nella finale di Coppa dei Campioni 1956/57 vinta dal Real 2-0
Ma Di Stefano è stato anche il “campione dei due mondi”. Nato in Argentina, nel “barrio” di Barracas, a Buenos Aires, un posto dove è obbligatorio crescere in fretta, spinto dalla madre accettò un provino per il River Plate, la mitica formazione bonaerense con la fascia rossa in diagonale su sfondo bianco, entrò presto a far parte della cosiddetta “màquina”, la macchina da reti quale era allora l’equipo argentino. Due i campionati argentini messi in bacheca. Poi, lo sciopero paralizzò l’attività calcistica nel paese del tango e allora Di Stefano emigrò in Colombia, la cui federazione, in quel momento, non era affiliata alla Fifa ai Millonarios di Bogotà, insieme ad un altro fortissimo compagno di squadra al River, Adolfo Pedernera. Insieme ad un altro straordinario esule argentino, Nèstor Rossi, fece meraviglie anche nella terra dei “cafeteros” conquistando tre titoli nazionali colombiani. Proprio con la casacca blu dei Millonarios si mise in luce in un’amichevole con il Real (4-2 per i colombiani nella finale di un quadrangolare proprio al “Chamartìn”), stregando don Santiago Bernabèu. Poi, il passaggio al Real e, dopo la finale del Prater con l’Inter, la chiusura nell’altra squadra di Barcellona, l’Espanyol, dove giocò per due stagioni, fino ai 40 anni, prima di appendere gli scarpini al chiodo. Ma “campione dei due mondi” lo fu, oltre che per i sucessi in squadre di club sudamericane ed europee, anche perchè vestì la maglia delle rappresentative di due paesi: Argentina e Spagna ed avrebbe potuto farlo anche con quella della Colombia da cui era stato invitato ma che non era riconosciuta dalla Fifa. Con l’Albiceleste fece in tempo a conquistare, in Ecuador, la Copa Amèrica nel 1947, andando a segno in sei occasioni. Ma l’Argentina rifiutò di partecipare al Mondiale in Brasile del 1950. Presa, poi, la nazionalità iberica, avrebbe potuto giocare con le “furie rosse” la Coppa del Mondo nel 1962, in Cile. Un infortunio alla vigilia glielo impedì. In quel Mondiale, peraltro, il sorteggio aveva destinato nello stesso girone la Spagna e i campioni in carica del Brasile (che poi avrebbe si sarebbe confermato sul tetto del mondo): vero che il k.o. di Pelè nella seconda partita con la Cecoslovacchia, chiuse anzitempo il Mondiale di O Rey che dovette lasciare il posto ad Amarildo (peraltro, mattatore nella terza partita, proprio Brasile-Spagna), ma pensate che spettacolo sarebbe stato un Brasile-Spagna con la “perla nera” di qua e don Alfredo di là. Sarebbe rimasto il suo più grande rammarico: il calciatore forse più forte di tutti i tempi mai presente alla manifestazione che consacra i migliori.
Kopa, Rial, Di Stefano, Puskas, Gento: un attacco così non si vedrà mai più
Di Stefano è stato anche due volte “Pallone d’Oro”: nel 1957 e nel 1959.
Qui con la maglia del “resto del Mondo” a Wembley contro l’Inghilterra
Anche da allenatore, Alfredo Di Stefano si è poi preso qualche soddisfazione, anche se nulla di paragonabile ai suoi trascorsi in calzoncini corti: in Spagna, una Liga ( nel 1970/71) e una Coppa delle Coppe (nel 1979/80) al Valencia, due titoli argentini, uno con ognuna delle due grandi di Buenos Aires, Boca e River, una Supercoppa di Spagna con il suo Real nel 1990. Alla sua seconda avventura sulla panchina madridista (aveva già allenato il Real ad inizio anni ’80 con due secondi posti, sempre dietro l’Athletic Bilbao di Javier Clemente) fu fatale un’eliminazione patita a seguito di un 1-3 al Bernabèu con lo Spartak Mosca in Coppa dei Campioni.
Poi, dal 5 novembre 2000, Florentino Pèrez lo volle con sè come presidente onorario del club. Una vita consacrata al Real.
Alfredo Di Stefano e il Real Madrid: un matrimonio lungo una vita
Oggi, propro all’interno del Bernabèu, la “sua casa”, verrà allestita la camera ardente.
“La vieja ( vecchia) – così Alfredo Di Stefano amava chiamare la sfera di cuio- è un bene prezioso, una cosa delicata. Va trattata bene. E lei saprà come ricompensarti“. Con don Alfredo fu molto generosa.
Da presidente onorario con i campioni d’oggi del Real: qui con CR7 e Kakà
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