Neanche si conosce in giro, ma ha già la sua prima vittima. Stiamo parlando del nuovo business degli hacker: rubare e ricreare le impronte digitali. E il primo a rimanerne vittima è stato il ministro della difesa tedesco Ursula von der Leyen.
La notizia di questo nuovo commercio di materiale trafugato arriva, appunto, dalla Germania, dove Jan Krissler, uno degli hacker più famosi al mondo, al 31esimo Chaos Computer Club che si è tenuto ad Amburgo, ha annunciato di aver riprodotto un’impronta attraverso delle fotografie. Krissler è riuscito nell’impresa usando diverse immagini realizzate da varie angolazioni durante un incontro pubblico. Il tutto è stato rielaborato grazie a un software chiamato Veri Finger. Le fotografie sono state scattate a tre metri dal ministro con una fotocamera digitale comune, ma per arrivare al risultato definitivo sono necessari una serie di passaggi tecnici tra cui la stampa in 3d delle impronte ricreate invertendo i colori delle immagini.
Inutile dire che l’hackeraggio apre le frontiere a nuovi problemi. Soprattutto per i nuovi iPhone e tablet che usano le impronte digitali al posto delle password e degli Id per proteggere il contenuto da furti e accessi indesiderati. Ma non solo. In questo modo diventerebbe facile anche violare tutti i sistemi di controllo biometrico che si basano sul riconoscimento delle impronte. E se si considera che usiamo già le impronte digitali per pagare attraverso il telefono, appare chiaro che svuotare un conto diventa un gioco da ragazzi.
Una impronta digitale viene è lasciata dai dermatoglifi dell’ultima falange ovvero dal polpastrello di un dito della mano. Un dermatoglifo è il risultato dell’alternarsi di creste e solchi. Le creste variano in ampiezza da 100 ai 300 micron, come anche il periodo cresta-solco corrisponde all’incirca a 500 micron. Le impronte digitali sono utilizzate da molto tempo per l’identificazione degli esseri umani in generale. Fondamentali nelle indagini giudiziali che si avvalgono anche di oggetti in caso di eventi criminosi.
Sono state trovate tavolette babilonesi risalenti al 500 a.C. riguardanti transazioni commerciali e recanti impronte impresse sulla loro superficie, probabilmente utilizzate come una specie di firma personale o di sigillo del documento. La dattiloscopia, ovvero lo studio delle impronte digitali, affonda invece le sue radici nel XVII secolo, in un passato comunque sempre abbastanza lontano dai nostri giorni. Già nei primi anni del ventesimo secolo, la formazione e i principi generali alla base delle impronte digitali e della loro verifica erano ben compresi a tal punto da consentire un loro primo utilizzo, come difatti avvenne, nei tribunali di giustizia di diversi stati.
L’identificazione attraverso l’utilizzo delle impronte digitali è basata su due basilari premesse: l’ “immutabilità”, secondo la quale le caratteristiche delle impronte non cambiano attraverso il tempo, e individualità, la quale afferma che l’impronta è unica da individuo a individuo.
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