Il terrorismo colpisce di nuovo la Turchia. Ieri sera un’autobomba è esplosa al passaggio di un convoglio militare nella capitale Ankara, uccidendo almeno 28 persone. E stamattina altri sette militari sono stati uccisi da una mina a Diyarbakir, città del sudest abitata in maggioranza da curdi.
Il governo non ha aspettato un attimo a puntare il dito contro il PKK, il partito curdo che per ottenere l’autonomia ha fatto ricorso varie volte alla lotta armata. L’attentatore è stato identificato come Saleh Najar, trascritto in turco come Salih Necar, un siriano di 24 anni. Sarebbe entrato in Turchia come richiedente asilo, lo scorso luglio, e gli inquirenti avrebbero riconosciuto le sue impronte digitali confrontandole con quelle registrate al momento dell’ingresso in territorio turco. Secondo il quotidiano Sozcu, Najar aveva militato nelle YPG, le “Unità di protezione del popolo” dei curdi siriani, braccio armato del PYD, il “Partito di unità democratica”.
Il primo ministro Ahmet Davutoglu ha in parte confermato le indiscrezioni di stampa: “L’attacco è stato compiuto dal PKK insieme con una persona entrata in Turchia dalla Siria”, ha dichiarato, per poi aggiungere che “le indagini proseguono e probabilmente ci saranno altri arresti”. Oggi gli inquirenti hanno dichiarato di aver compiuto 14 arresti in sette province.
Davutoglu ha anche detto di aver incaricato il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, di consegnare al Consiglio di sicurezza ONU le “prove” del coinvolgimento degli indipendentisti curdi nell’attentato di ieri: “È nostro diritto aspettarci una posizione comune contro organizzazioni terroristiche”, ha dichiarato il premier.
Il PYD, invece, nega qualsiasi coinvolgimento in modo categorico. “La realtà è che nessuna nostra unità è coinvolta e ha niente a che fare con le esplosioni”, ha dichiarato il presidente Salih Muslim.
Anche il PKK si dichiara estraneo agli attentati, ma ammette la possibilità che si sia potuto trattare di “una rappresaglia per i massacri in Kurdistan”. Da quasi una settimana, l’esercito turco ha intrapreso una campagna di bombardamenti contro le milizie curde in Siria e Iraq.
Il governo turco considera il PYD un’organizzazione terroristica. Di avviso opposto sono gli USA, che hanno più volte apprezzato l’utilità delle milizie curde nella lotta all’ISIS, e su questo punto Ankara e Washington si sono scontrate con toni anche forti negli ultimi giorni.
Vale la pena di ricordare che nei cinque anni della guerra civile, le YPG sono l’unica fazione dell’opposizione siriana ad aver guadagnato terreno. Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan le accusa di esserci riuscite stringendo un accordo segreto con il regime di Bashar al-Assad.
USA e Turchia – così come la UE – sono invece d’accordo nel definire terrorista il PKK. Il PYD ammette di avere legami storici e ideologici con il partito dei curdi di Turchia, e considera il loro leader storico Abdullah Ocalan – ora detenuto sull’isola di Imrali – come una guida spirituale. Ma ha sempre respinto l’accusa di essere soltanto la sua emanazione siriana, e sostiene di avere un’agenda politica diversa: il suo obiettivo non sarebbe l’indipendenza di un Kurdistan unito, ma l’autonomia in una Siria democratica e multiculturale.
Stamattina lo Stato maggiore turco ha annunciato di aver bombardato altri obiettivi nel nord dell’Iraq, dove le autorità della regione autonoma curda ospitano i miliziani del PKK. I nuovi raid avrebbero colpito un gruppo di 60 o 70 militanti, tra cui anche alcuni capi, nella zona di Haftanin.
Gli attentati degli ultimi giorni arrivano a poco più di un mese dall’ultimo allarme terrorismo in Turchia: lo scorso 12 gennaio erano stati colpiti i turisti a Sultanahmet, il quartiere centrale di Istanbul che ospita monumenti come Santa Sofia, la Moschea blu e il palazzo di Topkapi. Anche in quell’occasione il presidente Erdogan aveva accusato del gesto un “terrorista suicida di origine siriana”.
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