Lunghi applausi in sala al termine della proiezione di questa mattina del film documentario di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, unico italiano in gara per l’Orso d’Oro di quest’anno. Grandi aspettative per un lavoro che parla soprattutto di immigrazione e integrazione, perfettamente in tema con quest’edizione del Festival del Cinema di Berlino; ma al piccolo gruppo di giornalisti italiani che lo intervistano il regista dice: “Per me è già una vittoria che un documentario sia in concorso a Berlino”.
Nel Grand Hyatt Hotel, al centro di Berlino, in una sala riservata ed accogliente, illuminata da un insolito sole invernale, il regista, che nel 2013 per primo partecipò in concorso con un documentario al Festival del Cinema di Venezia e vinse il Leone d’Oro, oggi parla del suo ultimo lavoro a Lampedusa.
Gianfranco Rosi comincia a discorrere con semplicità e disinvoltura, è disteso e –giustamente- soddisfatto di quanto è riuscito a realizzare. “Doveva essere un breve cortometraggio che documentasse al mondo la tragedia che ancora si svolge sulle coste di Lampedusa,” dice subito “ma sin dal primo momento mi sono reso conto che non era possibile ridurre tutto ad un piccolo film e così è nato Fuocoammare”.
Chiediamo al regista come è stato possibile realizzare una narrazione così equilibrata e al tempo stesso toccante in un documentario. “Ho iniziato a girare questo film con grande pudore.” ci dice Rosi “Ho cercato di bilanciare le scene e ho sfruttato molto il significato metaforico delle immagini. Spesso però, soprattutto all’inizio, di fronte ad alcune tragedie che ho visto svolgersi sotto i miei occhi mi sono fermato perché l’impatto era troppo forte e non volevo scadere nel voyeurismo. Poi le stesse persone che mi stavano accanto, l’equipaggio della nave e i diretti testimoni quotidiani di questi drammi, mi hanno incoraggiato a continuare a girare”. Anche se, poco dopo, il regista racconta di aver assistito più volte al recupero di diversi bambini deceduti in mare e di non averli mai voluti filmare.
Gianfranco non esita nemmeno a parlarci delle sue sensazioni durante le riprese: “Quando giro sono abituato ad entrare in contatto diretto con la realtà e le persone che intendo filmare, ho bisogno di immergermi nell’ambiente che voglio descrivere. Ma questa volta mi sentivo come un marziano. Sulle barche, in mezzo ai migranti, dovevo indossare una tuta bianca di protezione e mi rendevo conto che ai loro occhi dovevo apparire come una sorta di alieno con una cinepresa in mano. Ma ho capito che non potevo non raccontare questa tremenda sofferenza”.
Eppure Fuocoammare documenta una tragedia senza appesantirla: “Non volevo fermarmi al semplice e doloroso racconto degli sbarchi. Volevo descrivere tutta la realtà di Lampedusa nel suo complesso.” risponde il regista “Così ho pensato che sarebbe stato interessante osservare la vita di quest’isola attraverso gli occhi di un bambino e quando mi hanno presentato Samuele dopo 5 minuti ho subito capito sarebbe stato perfetto. L’ho visto giocare con la fionda e mi ricordo che mi ha detto: “ci vuole passione!”. Da quel momento le riprese con lui sono state un gioco, tutto è nato in modo molto spontaneo e naturale. Anche perché questo è il solo modo di lavorare che io conosca”.
“Un film che non si fonda su una sceneggiatura precostituita” spiega infatti Rosi “nasce quasi per autofecondazione, con estrema libertà e grande naturalezza. Stare dietro la cinepresa è il mio modo di scoprire il mondo, come uno scienziato che osserva la realtà al microscopio”. Quando gli chiediamo come si conclude un film privo di sceneggiatura Rosi risponde senza difficoltà: “Di fronte alla tragedia dei morti in mare mi sono reso conto che si era chiuso il cerchio, la vena narrativa si è spenta e ho capito che il film si doveva concludere così”.
Prima di salutarci Gianfranco Rosi non si sottrae ad un’ultima domanda sul contenuto politico di questo suo lavoro e spiega con serenità: “Fuocoammare è un film politico a prescindere, perché è la testimonianza di una tragedia che sta avvenendo sotto i nostri occhi e, come dice il medico in una scena, “è dovere di ogni uomo che sia uomo aiutare queste persone”. La responsabilità politica di questa tragedia però è mondiale, non ci si può abituare alla vista di queste immagini né ridurre tutto ad una fredda stima di cifre”.
Dopo una lunga e piacevole chiacchierata, Gianfranco Rosi ci saluta cordialmente. Intanto, al termine della proiezione pubblica, sono continuati gli applausi in sala, 10 minuti ininterrotti al cast sul sul palco: un successo non ancora riscontrato da nessun altro film in concorso a questo Festival.
Laureata in Lettere, amante dell’arte, dello spettacolo e delle scienze umane, autrice di testi di critica cinematografica e televisiva. Ha insegnato nella scuola pubblica e privata; da anni scrive ed esplora con passione le sconfinate possibilità della comunicazione nel web.
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