Che ne sarà dell’Europa dopo il Brexit? In breve: non si sa. Nessuno Stato entrato a pieno titolo nella UE ne era mai uscito.
Gli unici precedenti riguardano territori a sovranità limitata – la Groenlandia e l’isola caraibica di St. Barthélemy – e l’Algeria, che prima di rendersi indipendente era considerata parte integrante della Francia (non una colonia), e quindi membro fondatore della CEE.
L’articolo 50 del trattato di Lisbona prevede un iter di almeno due anni per il divorzio, ma il processo potrebbe durare di più. La UE e il Regno Unito dovranno rinegoziare tutti i termini che fino a ieri erano coperti dai trattati di associazione. Il presidente del Consiglio UE, Donald Tusk, parla di “almeno sette anni”; Londra fa sapere che l’iter durerà “un decennio o più”. Ma per prolungare il percorso oltre due anni serve l’unanimità fra gli altri 27 Stati, oltre al parere positivo del Consiglio UE e del Parlamento di Strasburgo. E oggi quel parere è nettamente contrario. Con il presidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker, il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz e il presidente di turno dell’Unione, il premier olandese Mark Rutte, Tusk ha sottoscritto un documento in cui si afferma che i leader comunitari sono “uniti” nella reazione a una situazione “senza precedenti”. Secondo Schulz, l’uscita del Regno Unito dalla UE dovrà avvenire “appena possibile, per quanto doloroso possa essere il processo”. Nella lingua della UE è un rifiuto netto alla proposta di Cameron, che avrebbe voluto rimandare l’avvio dei negoziati fino all’insediamento del suo successore.
Le questioni sul tavolo sono innumerevoli, a cominciare da quali norme UE Londra dovrà continuare ad osservare durante i negoziati. “Non ci sarà un vuoto legale”, secondo Tusk: “Fino all’uscita formale della Gran Bretagna la legge UE resta valida nel Regno Unito, ciò significa diritti e doveri”. Ma in pratica la materia è intricata. Ad esempio, secondo i trattati, gli europarlamentari dovrebbero continuare a discutere e votare le norme che interesseranno i 27, escluse quelle strettamente connesse al Brexit.
Nel frattempo si dovrà dare un assetto ai nuovi rapporti UE-UK. Si potrebbe prendere esempio dal trattamento riservato agli Stati europei che nella UE non sono mai entrati, come Norvegia e Islanda, che fanno parte dell’EFTA – l’area europea di libero scambio –, aderiscono agli accordi di Schengen e alle innumerevoli convenzioni in materia di commercio, ricerca, università, protezione dei consumatori. Per trovare una sistemazione a tutto è quasi scontato che due anni non basteranno.
In un ordinamento di common law come quello britannico – dove non esiste nemmeno una Costituzione unica – il referendum non è legalmente vincolante. Ma in pratica, una volta indetto, non se ne può più ignorare il risultato. Quindi, questo divorzio s’ha da fare.
Quel che è certo è che a traghettare il Regno nel mare insidioso dei negoziati non sarà David Cameron. Le urne hanno condannato l’uomo di Downing Street a un fallimento clamoroso e doloroso. Il politico costruito in laboratorio per guidare il Partito Conservatore è stato sconfitto dalla sua stessa creatura, quel referendum che aveva indetto per convenienza elettorale e provato a perdere in tutti i modi.
Si può consolare pensando che non sarà lui a pagare il conto. Il prossimo timoniere dei Conservatori sarà Boris Johnson, che ha portato a casa la posta mettendosi alla testa della fronda antieuropea e trasformando il referendum in un duello con Cameron. I bookmaker lo danno per sicuro vincente, e pazienza se sul referendum hanno preso una cantonata pazzesca: gli inglesi si fidano ancora più di loro che dei sondaggisti.
Nel coro di chi canta vittoria la voce più forte è un’altra: quella di Nigel Farage, il leader dell’UKIP. Il partito eurofobo si è distinto per aver coniato gli slogan più fortunati e per averli gridati più forte, buon ultimo quell'”Independence Day” ripreso anche da Johnson e dagli altri conservatori pro-Brexit. La sua affermazione ha ringalluzzito i nazionalisti e gli euroscettici di tutta Europa, scatenando una corsa al neologismo che finora ha prodotto Frexit (proposto da Marine Le Pen) e Nexit ( Nederland, Paesi Bassi).
Il terremoto politico nel Regno Unito è totale. In queste ore anche l’opposizione laburista è impegnata nel tiro al bersaglio contro il segretario Jeremy Corbyn, reo di aver sottovalutato le possibilità del Leave e di non aver allestito una campagna incisiva per il Remain. Salgono invece le quotazioni del sindaco di Londra Sadiq Khan, l’uomo che il Labour, anche per via delle sue origini pakistane, ha mandato in prima linea contro il suo predecessore Johnson. Ora i laburisti londinesi lo vogliono al posto di Corbyn. Qualcuno, tra il serio e il faceto, ha perfino proposto un’inedita secessione della capitale, con Khan al timone. In effetti a Londra ha vinto nettamente il Remain: a favore del Brexit hanno votato solo Bexley, Havering e Barking-Davenham, le tre circoscrizioni all’estrema periferia est della Greater London.
Anche se una secessione di Londra come città-Stato sembra appartenere alla fantascienza, per restare Unito il Regno deve affrontare spinte centrifughe molto più reali, a cominciare dalla Scozia. A nord del Confine – il Confine per antonomasia, in inglese – al Brexit si è opposto un “no” deciso e plebiscitario: il Remain ha quasi doppiato il Leave (62% contro 38%) e ha vinto in tutte le circoscrizioni. Anche in Irlanda del nord gli elettori avrebbero preferito restare in Europa. E adesso entrambe le regioni reclamano l’indipendenza.
A Belfast il vice-primo ministro Martin McGuinness – esponente degli indipendentisti di Sinn Féin, parte della coalizione che sostiene il governo regionale – ha chiesto di indire un referendum per uscire dal Regno Unito e confluire nella Repubblica d’Irlanda. Ma McGuinness è stato un dirigente dell’IRA e le sue posizioni, almeno secondo i sondaggi, sono minoritarie. Il partito nordirlandese più votato, l’Unione democratica, ha appoggiato la campagna per il Leave.
Diversa la situazione in Scozia: qui il referendum per l’indipendenza si è già fatto, nel 2014, e non è passato per una decina di punti percentuali. Ma dopo il referendum – e dopo aver constatato ancora una volta che la volontà degli scozzesi è destinata a non lasciare traccia a Londra – i rapporti di forze tra unionisti e indipendentisti potrebbero cambiare. E qui si è esposta in prima persona la First Minister Nicola Sturgeon, esponente dell’SNP. In una conferenza stampa convocata per l’occasione, la Sturgeon ha definito “altamente probabile” un secondo referendum per l’indipendenza. La First Minister ne ha approfittato anche per chiedere al governo di Londra di coinvolgere direttamente i rappresentanti della Scozia nei negoziati per il divorzio dalla UE.
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