Pic shows: Brexit trawler protest through Tower Bridge on the Thames today Was disrupted by a few boats flying "In" or remain flags Pic by Gavin Rodgers/Pixel 8000 Ltd
Sono passati i tempi dell’ammiraglio Nelson, ma a Londra, a cercarlo bene, qualche nostalgico degli anni d’oro della Royal Navy – i tempi delle navi di legno e degli uomini d’acciaio – ancora si trova. Ne sanno qualcosa gli inglesi che stamattina hanno assistito a un pittoresco spettacolo allestito da Nigel Farage.
Il leader del partito euroscettico UKIP, uno dei più accesi sostenitori del Brexit – l’uscita del Regno Unito dalla UE, su cui gli elettori britannici si esprimeranno il prossimo 23 giugno – si è messo alla testa di una flottiglia di qualche decina di pescherecci per promuovere le ragioni del Leave al referendum e protestare contro la politica UE sulla pesca.
Per fare una storia epica, naturalmente, non basta un protagonista. Ed ecco scendere in acqua la nemesi perfetta: Bob Geldof, cantautore balzato agli onori delle cronache negli anni Ottanta per le sue iniziative umanitarie. Con pochi mezzi – niente pescherecci, solo qualche gommone – ma animato da sacro furore europeista, Geldof si è presentato all’appuntamento con la flottiglia sventolando un vessillo giallo con la scritta “IN” sulla sagoma di un merluzzo dell’Atlantico.
Vale la pena di spendere qualche parola anche sui comprimari della storia. Nell’angolo del Leave, accanto a Farage, il ministro dell’Agricoltura George Eustice, un membro della “fronda” conservatrice – capitanata dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson – che sostiene il Brexit, mentre il premier David Cameron fa campagna per il “no”. Nell’angolo del Remain, Rachel Johnson, giornalista e sorella dell’ex sindaco.
Per fortuna non si è assistito a una battaglia navale: il picco della tensione si è raggiunto quando una barca pro-Brexit ha puntato un idrante contro un gommone dei contrari. Ma la resa dei conti sul Tamigi ha ugualmente solleticato la curiosità degli inglesi in un mercoledì che rischiava di scivolare via senza sorprese.
Farage e i suoi puntano il dito in particolare contro il principio dell’“eguale accesso alle risorse comuni”, che permette alle flotte degli altri Stati UE di accedere alle acque territoriali di ognuno dei 28 Paesi membri. Se invece si seguisse l’esempio della Norvegia, che alla UE non ha mai aderito, i pescatori britannici sarebbero liberi di sfruttare i loro mari in completa libertà. Almeno così la pensa Farage, che accusa gli organi comunitari di aver bruciato “decine di migliaia di posti di lavoro” sia nella pesca commerciale che in quella sportiva.
Sulla pesca la UE ha competenza esclusiva dal 2009, anno del Trattato di Lisbona, ma norme comunitarie in materia circolano già dagli anni ’70, in piena era CEE. La pesca produce meno dell’un per cento del PIL continentale, ma riceve un’attenzione speciale perché si pratica soprattutto in aree relativamente povere dell’Unione, dove gli altri settori produttivi non sono altrettanto sviluppati.
I massimali di cattura contro i quali si scaglia Farage servono a scongiurare per quanto possibile la sovrapesca, il nefasto scenario in cui una risorsa ittica si esaurisce perché se ne pesca più di quanta non se ne riesca a riprodurre. In casi del genere il rischio è che al disastro ecologico ne segua un altro economico. Per evitarlo serve un incessante ping pong tra le esigenze dei pescatori e quelle dell’ecosistema. Non che a Londra non lo sappiano: il governo britannico, nel suo Piano d’azione per la biodiversità, ha riconosciuto che la sovrapesca delle sogliole nel mare d’Irlanda ha portato tutto il settore d’attività al collasso.
Non abbiamo modo di sapere cosa pensi l’euroscettico europarlamentare della sovrapesca. Sappiamo invece che la Christina S., una delle ammiraglie dell’intrepida flottiglia del Tamigi, apparteneva a Ernest Simpson e a suo figlio Allan, condannati nel 2012 a multe milionarie per aver sforato le quote di cattura in un’inchiesta che la stampa d’Oltremanica ha battezzato Black Fish.
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