Dopo il referendum sul Brexit, il distacco tra Regno Unito e UE si deve consumare prima possibile. Lo hanno ripetuto oggi i leader europei – il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il Presidente francese François Hollande e la Cancelliera federale tedesca Angela Merkel – riuniti per un vertice straordinario a Berlino.
Prendere tempo “è surreale”: “Quando si divorzia si deve abbandonare il letto coniugale”, si legge in una nota dell’Eliseo. Stamattina, prima di partire per Berlino, il presidente ha ricevuto a Parigi il presidente del Consiglio UE Donald Tusk. D’accordo la Merkel: una “lunga fase di sospensione” prima di intavolare le trattative con Bruxelles non gioverebbe a nessuno. Ma la Cancelliera ha evitato di precisare quando la sospensione si possa considerare “lunga”.
Fino al momento del voto, il premier britannico dimissionario, David Cameron, era dello stesso avviso; ma ha cambiato idea quando si è reso conto di aver perso il referendum. Mentre Renzi preme sull’acceleratore – “Non possiamo stare un altro anno a discutere dell’uscita della Gran Bretagna dalla UE”, ha detto ieri – Cameron ha annunciato che non avvierà l’iter – previsto dall’articolo 50 del trattato di Lisbona – in occasione del vertice europeo di domani, e ha chiesto tempo fino a ottobre.
Per quel mese si dovrebbe sapere chi guiderà dopo di lui il Partito Conservatore e il Governo. Oggi il comitato esecutivo dei Tories ha annunciato che il nuovo segretario dovrà essere operativo entro il 2 settembre. Il favorito alla successione è l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, capofila della fronda pro-Brexit all’interno del partito.
Il cambio di strategia deciso da Cameron scarica sulle spalle del suo successore la responsabilità di avviare materialmente le pratiche del divorzio dalla UE. E quindi anche Johnson si è affrettato a dichiarare al fido Daily Mail che “non c’è una gran fretta di lasciare l’Unione europea”. Nel frattempo, quella parte dell’establishment conservatore che non ha seguito l’ex primo cittadino di Londra sta provando a raggrupparsi intorno a un candidato che gli possa almeno contendere la leadership. Ad esempio Theresa May, Segretario di Stato per l’Interno uscente ed ex presidente del partito.
Intanto, però, gli altri 27 Stati membri sono costretti ad aspettare gli sviluppi delle dinamiche interne al Paese che ha deciso di uscire dal club europeo. Dinamiche che a distanza di giorni restano complicate da leggere e da interpretare.
Oltremanica gli ultimi giorni sono stati all’insegna del Bregret, il rimorso (“regret”) per aver votato Leave. In molti se la sono presa con la stampa, soprattutto i tabloid pro-Brexit, “rei” di aver aspettato fino alla chiusura delle urne prima di pubblicare analisi ragionate e circostanziate. Prima, a riempire il vuoto è stato chi urlava più forte: molti elettori si sono sentiti defraudati. Non sono mancate le inversioni di marcia improvvise rispetto alle promesse della campagna referendaria. Ad esempio, venerdì il segretario UKIP Nigel Farage è tornato sulle 350 mila sterline che a suo dire sarebbero finite nelle casse del servizio sanitario di Sua Maestà in caso di Brexit, e ha candidamente ammesso di non avere garanzie in merito.
Questo e altri casi hanno spinto Tim Farron, segretario del partito liberal-democratico, a promettere che farà di tutto per evitare l’uscita del Regno Unito dalla UE. In realtà oggi le sue possibilità di azione sono molto limitate: a Westminster i Lib-Dem hanno appena otto deputati alla Camera dei Comuni, mentre sono meglio rappresentati fra i Lord. Farron ha spiegato di voler essere più chiaro possibile in caso di un ritorno alle urne: una possibilità tutt’altro che scontata – c’è bisogno che il nuovo leader conservatore non riesca ad ottenere la fiducia di un parlamento dove i Tories sono in netta maggioranza – ma nemmeno impossibile.
Non naviga in acque tranquille nemmeno il segretario laburista Jeremy Corbyn, attaccato da più parti per non aver sostenuto in modo abbastanza incisivo la causa del Remain. Dodici ministri del suo governo ombra si sono dimessi. Ma il segretario non ha alcuna intenzione di farsi da parte: “Mi dispiace che ci sia chi si è dimesso dal mio governo ombra, ma non tradirò la fiducia di chi ha votato per me. Chi vuole un cambiamento di leadership si dovrà confrontare in elezioni democratiche e io mi candiderò”.
Alcuni commentatori hanno parlato di “effetto Brexit” sulle elezioni politiche spagnole di ieri. In pratica, gli elettori spagnoli si sarebbero rifugiati nei partiti tradizionali per paura degli effetti destabilizzanti di un voto più avventuroso. Questo spiegherebbe in parte il guadagno di voti e seggi da parte del Partito popolare di Mariano Rajoy. E un effetto simile sarebbe avvenuto anche negli USA, dove è in corso la campagna per le presidenziali di novembre tra Hillary Clinton e Donald Trump. Secondo una rilevazione di Ipsos, citata dall’agenzia Reuters, l’ex Segretario di Stato sarebbe in vantaggio di tredici punti sul miliardario newyorkese. Sarebbe la prima volta dopo la strage di Orlando che il distacco a favore della Clinton torna a due cifre.
Dagli USA rimbalza anche la voce di George Soros, il finanziere tra i protagonisti della speculazione contro la sterlina (e la lira italiana) nei primi anni ’90. Dopo il Brexit la “disintegrazione” della UE sarebbe “praticamente irreversibile”, scrive Soros:
La Gran Bretagna potrà forse star meglio o forse no di altri Paesi lasciando l’Unione Europea, ma la sua economia e la sua gente soffriranno significativamente nel breve e medio termine.
L’intervento di Soros prosegue ricordando che “la sterlina è precipitata al suo valore più basso da oltre tre decenni”, e i mercati finanziari “probabilmente rimarranno instabili finché viene negoziato il lungo e complicato processo per il divorzio politico ed economico”. Ma “non dobbiamo arrenderci”, esorta il finanziere: tutti coloro che “credono nei valori e principi per cui la UE è stata creata, si devono unire per salvarla”.