L’avanzata dell’ISIS sia sul fronte siriano sia su quello iracheno, che ha portato i jihadisti a conquiste strategiche come Ramadi in Iraq e Palmira in Siria nelle ultime settimane, sta creando notevoli imbarazzi all’interno della coalizione schierata contro l’autoproclamato califfato.
Al centro del dibattito c’è la sconfitta di Ramadi, dove le forze irachene si sono ritirate di fronte alle milizie di Abu Bakr al-Baghdadi. Intanto, a Washington, qualcuno sta iniziando a definire fallimentare anche la strategia dell’amministrazione Obama, oltre a quella del suo predecessore George W. Bush.
Il segretario alla Difesa USA, Ash Carter, ha accusato l’esercito di Baghdad di “non aver mostrato alcuna volontà di combattere” durante la presa di Ramadi.
Com’era prevedibile, il premier iracheno Haidar al-Abadi ha respinto le accuse al mittente: secondo lui, in estrema sintesi, la battaglia persa è solo un contraccolpo tecnico di un’avanzata inarrestabile delle truppe governative, chi si è dato alla fuga è stato punito e gli eroi che hanno resistito a oltranza sono stati premiati.
In realtà, come ha già denunciato la stampa irachena non del tutto allineata al premier, l’unica iniziativa presa dopo la sconfitta è stata rimuovere dall’incarico il capo della polizia del governatorato di al-Anbar, di cui Ramadi è il capoluogo.
Il comportamento di vari esponenti della polizia, più inclini a salvare la pelle che a vincere scontri in cui erano pure in netta superiorità numerica, era del resto stato denunciato da testimoni già all’indomani della caduta della città.
A molti, però, la spiegazione di Carter è sembrata semplicistica: sotto accusa è finito anche il modello scelto dall’amministrazione Obama per l’intervento in Iraq, modello che prevede da parte americana soltanto raid aerei e assistenza tecnica alle forze armate del governo di Baghdad.
Più rapido a polemizzare, com’era prevedibile, è stato chi ha qualcosa da guadagnare da un’eventuale revisione del modello. Il più lapidario è stato il vicepresidente iracheno Iyad Allawi: “I raid aerei non risolvono il problema”. La ricetta dell’ex premier prevede ampi poteri di autogoverno per la comunità sunnita.
Sulla testa del presidente Obama sono piovuti anche gli strali di molti esponenti del partito repubblicano, in un’anteprima della campagna elettorale per le presidenziali in programma per la fine del 2016. Al loro fianco, però, si sono schierati anche ampi settori dell’esercito.
E così, a Tampa, in Florida, i corpi speciali riuniti per un forum hanno chiesto a gran voce al presidente di tornare a schierare truppe in Medio Oriente: “Come è possibile ottenere risultati senza scendere in campo e agire sul territorio?”
Indipendentemente dalla convenienza politica di chi ne parla, però, alcuni punti della conduzione militare della campagna sono oggettivamente controversi.
Nel valutare le responsabilità di Obama bisogna senz’altro ricordare che al momento della sua elezione, sei anni dopo l’invasione decisa dall’amministrazione Bush, la situazione in Iraq era già gravissima dal punto di vista sociale e umanitario oltre che istituzionale e militare.
D’altra parte, a chiedere al presidente un disimpegno rapido, e specialmente la fine di operazioni militari di terra che mettessero in pericolo l’incolumità dei soldati USA, era – ed è ancora – la grande maggioranza dell’opinione pubblica.
Nelle intenzioni dell’esecutivo, l’appoggio limitato all’esercito iracheno doveva servire proprio a limitare le perdite fra le truppe USA, e doveva essere accompagnato da una massiccia assistenza alle istituzioni di Baghdad.
Per combattere gli estremisti ci sarebbe stato bisogno di tutte le componenti della società, compresa quella sunnita, che nella ricostruzione dopo la caduta della dittatura è stata emarginata dalla gestione del potere in base sulla base dell’accusa di aver sostenuto in massa Saddam Hussein.
La storia della cooperazione fra gli USA e gli iracheni sunniti, però, è ricca di fallimenti e di mezzi fallimenti. L’unico vero successo risale all’ormai lontano 2006, porta il nome in codice di Anbar Awakening (“Risveglio di al-Anbar”) e la firma del generale David Petraeus. In quell’occasione il generale era riuscito a fare tesoro della delusione degli ex-sostenitori sunniti di Saddam, che dopo la caduta della dittatura si erano rivolti ad al-Qaeda per tornare al potere, ma erano rimasti intrappolati nella sua strategia di terrore e destabilizzazione. La sconfitta di al-Qaeda allora era stata totale e sorprendente.
Anbar Awakening, secondo l’amministrazione Obama, avrebbe dovuto fare da modello al governo di al-Abadi nella lotta contro l’ISIS. Per il momento la scommessa appare persa: una parte consistente della popolazione preferisce il governo dei jihadisti a quello del premier, e lo stesso al-Abadi, dal canto suo, ha preferito farsi aiutare dalle milizie sciite sponsorizzate dall’Iran piuttosto che dagli abitanti del posto.
Questi fallimenti hanno costretto Barack Obama a convocare una riunione d’emergenza del Consiglio per la sicurezza nazionale, la settimana scorsa, per rivedere tutta la strategia americana in Iraq.
La situazione sul campo, in realtà, non è disperata: secondo l’agenzia Reuters, le truppe governative e le milizie sciite alleate hanno lanciato una controffensiva nei dintorni della città, riprendendo il controllo di alcune posizioni cadute sotto il controllo dell’ISIS.
Ciononostante, si tratta incontestabilmente di un arretramento importante sul piano strategico: Ramadi è la prima tappa di un percorso obbligato che attraverso Falluja potrebbe portare i jihadisti a marciare sulla capitale Baghdad.
Filippo M. Ragusa
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