Aggiornare e creare nuove competenze per salvare milioni di posti di lavoro. In occasione del Digital Day che si svolge oggi a Roma, l’Europa fa il punto sui pro e i contro dell’Industria 4.0 e lancia un appello ai Paesi membri affinché stiano al passo con i tempi, soprattutto nel sostenere i giovani nella ricerca di un impiego.
Non solo non possiamo fare a meno della tecnologia per fare qualunque cosa ma acquisire nuove competenze in ambito informatico sembra essere la chiave anche in ambito lavorativo. Sviluppatori di app, analisti di big data,analisti di social media, web designer, esperti di cybersicurezza: sono queste le competenze nelle quali gli Stati membri risultano maggiormente carenti, manifestando una debolezza cromosomica che rischia di inficiare in partenza la crescita economica.
Ecco perché tra le iniziative istituzionali per il 60esimo anniversario dei Trattati di Roma, l’Ue ha deciso di inserire anche delle tavole rotonde per affrontare la questione della specializzazione tecnologica e le competenze digitali. I temi sono la strategia europea nell’ high computing, la mobilità connessa e automatizzata, l’industria del digitale, l’impatto della conversione digitale sul lavoro e le competenze.
Today digital is to Europe what coal and steel were 6 decades ago. It has the same huge potential to improve peoples’ lives, to reinventing our way of working and to raise investments in the future, bringing huge economic potential for European innovation. Digital will strengthen European economy and society so that business can thrive in the global digital transformation”, si legge nella pagina del Digital single market.
Alle varie iniziative, che si svolgono a Palazzo Doria Pamphilj partecipano anche Andrus Ansip (vicepresidente della Commissione Ue e responsabile per il Mercato Unico digitale), Günther Oettinger (Bilancio e risorse umane); tra le personalità istituzionali per l’Italia vi saranno invece i ministri Carlo Calenda (Sviluppo economico), Giuliano Poletti (Lavoro) e Valeria Fedeli (Istruzione). L’obiettivo? Firmare una dichiarazione e prendere impegni concreti per lo sviluppo digitale dell’economia e della società.
Per l’Europa, crescere in questo settore è assolutamente imperativo: Secondo i dati infatti, oggi solo il 3,6% della forza lavoro in Europa ha una specializzazione tecnologica e soltanto il 56% degli europei ha competenze digitali di base. Se questo gap non si riduce, si rischia di non riuscire a soddisfare la richiesta di mercato, che invece è sempre più affamato di professionisti informatici. Basti pernsare che entro il 2020 nel settore dell’Ict ci saranno da 500mila a 700mila posti di lavoro disponibili e già oggi in sette dei Paesi membri mancano al mercato 150mila professionisti del settore.
È ovvio che i singoli Paesi non dovranno fare tutto da soli: la Commissione ha infatti invitato gli Stati membri ad utilizzare a pieno le risorse messe a disposizione dalla Youth Employment Initiative (finanziamenti inclusi nel Fondo sociale europeo). Ciò che importante sottolineare è che queste competenze devono essere sviluppati da tutti (o quasi tutti) i lavoratori, non solo da ingegneri o specialisti del settore. In questo senso, più che incentivare le iscrizioni a corsi di laurea scientifici, si dovrà piuttosto puntare a corsi modulari, anche di sei mesi, per competenze molto specialistiche – osservano gli sherpa della Direzione europea Connect – che potranno sicuramente risultare più efficienti.
D’altra parte, la prova che ad insistere sul settore digitale non si sbaglia la si trova nei dati: dal 2015, spiegano dalla Dg connect, in Europa sono stati creati 1,3 milioni di posti nel settore Ict, per lo più ben pagati, con punte come la Svezia dove il 52% delle nuove posizioni è stato attivato da startup di tipo hi-tech.
Il lavoro digitale aiuterà i giovani? Se riusciranno a non perdere il treno delle nuove competenze tecnologiche, sicuramente sì. Ma non sarà facile. In parte, perché il tema resta ancora controverso e vi potranno essere modifiche che cambieranno la struttura dei contratti di lavoro legati al digital working, aprendo nuove possibilità ma anche tutta una serie di universi inesplorati per il lavoratore e per l’azienda.
Aiutare i giovani ad uscire di casa è anche una questione etica. Inoltre, ad oggi, i giovani italiani, certo non aiutati dall’attuale situazione economica – non sembrano incentivati a correre qualche rischio. Uno studio della Fondazione Visentini, presentato ieri alla Luiss evidenzia infatti un dato preoccupante: facendo i calcoli, “Se un giovane di 20 anni nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18 (arrivando quindi a 38 anni), e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, ‘grande’ a cinquant’anni”.
Per fare fronte a questo problema, “sarebbe necessario un patto tra generazioni con un contributo da parte dei pensionati nella parte apicale delle fasce pensionistiche con un intervento progressivo sia rispetto alla capacità contributiva, sia ai contributi versati”, si legge nella ricerca. Dunque “serve una rimodulazione dell’imposizione che, con funzione redistributiva, tenga conto della maturità fiscale”, propone lo studio, secondo la quale sarebbe necessario anche un “contributo solidaristico da parte della generazione più matura che gode delle pensioni più generose”, questo sarebbe “doveroso, non solo sotto il profilo etico, ma anche sotto quello sociale ed economico”.
Insomma, i giovani italiani dovranno sicuramente rimboccarsi le maniche oggi più di ieri per farsi spazio nel mondo del lavoro e per conquistare la propria autonomia dalla famiglia. Alla base di tutto però, vi dovranno essere delle politiche istituzionali che li aiutino e sostengano i loro percorsi di formazione, aggiornamento e acquisizione delle competenze.
P.M.
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