Messo alle strette su tutti i fronti, sotto assedio in Iraq, bombardato in Siria, l’ISIS, per qualche dollaro in più, vende all’asta come schiave le sue prigioniere.
A far luce sulla vicenda, fino a ieri nota solo dai racconti delle sopravvissute, è stato il settimanale L’Espresso, che nel suo prossimo numero (in uscita domenica) pubblica un’inchiesta con foto e dettagli che confermano senza più dubbio le testimonianze di tanti prigionieri sfuggiti dalle mani dei jihadisti.
Le vittime sono donne di ogni età, molte minorenni, perfino bambine. Quando ci sono, anche i loro figli. Sono state catturate in varie parti dell’Iraq e della Siria. Molte appartengono al popolo degli yazidi: una comunità di origini curde, stanziata nel nord dell’Iraq, la cui religione (rigorosamente riservata agli iniziati) mescola elementi cristiani e islamici a sopravvivenze dello zoroastrismo, la religione degli antichi Persiani. Proprio per questo, l’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi si è messo in testa di eliminarli dalla faccia della terra in quanto “adoratori del demonio”. E non senza un certo successo: parlando di ciò che sta succedendo ai danni degli yazidi, l’ONU non ha più remore a usare la parola “genocidio”.
A scoperchiare il vaso di Pandora è stato un ex commerciante iracheno che si fa chiamare Abu Shujaa, “Padre Coraggio”. L’evento che gli ha cambiato la vita è stata la presa di Sinjar da parte dell’ISIS, nell’agosto 2014. Da allora ha aperto una rete di mediazione che conta 35 collaboratori. Finora ha restituito la libertà a 3 770 ostaggi dei jihadisti.
La compravendita avviene attraverso gruppi privati su Telegram, un diffuso sistema di messaggistica istantanea per pc e cellulari. Un tempo si usava Whatsapp, spiega Abu Shujaa; in questo modo si può organizzare una vera e propria asta in tempo reale, ovunque si trovino gli acquirenti. Ed è così che le donne sono state spedite in tutte le città occupate dai jihadisti, da Mosul a Raqqa o ad Aleppo.
È finita l’epoca delle grandi aste, racconta Abu Shujaa: ora l’ISIS ha paura dei bombardamenti e preferisce tenere i gruppi entro dimensioni contenute. Gli annunci delle sabaya, le ragazze, sono corredati di foto in cui sono “truccate e vestite bene”, spiega, “per spuntare un prezzo migliore”. I prezzi sono variabili: per le più giovani la base d’asta è intorno a 5 mila dollari, ma negli ultimi tempi i jihadisti hanno fame di contanti, e i prezzi in alcuni casi hanno superato i 40 mila dollari. Cifre del genere non sono alla portata di tutti: solo dei più ricchi affiliati al califfato, o di chi proviene da paesi dove il tenore di vita è più alto, come il Belgio o l’Australia. Soprattutto, non sono più alla portata delle famiglie, anche quando riescono a intervenire nell’asta per riscattare le loro care.
Abu Shujaa è diventato un’istituzione: ormai, quando le famiglie delle ragazze rapite riescono a contattarle, si premurano di passare loro uno dei suoi quattro numeri di telefono o dei suoi nove account sui vari social network. Il suo lavoro di intelligence poggia su una rete di informatori e su minuziose analisi della situazione dell’ostaggio e di chi lo tiene prigioniero. “Nella prima operazione – racconta l’ex commerciante – abbiamo liberato sette ragazzine prigioniere di una coppia di australiani di origine libanese. Le abbiamo portate via durante la preghiera, nascoste per due giorni in un’abitazione lontana appena 200 metri dalla loro e trasportate verso Gaziantep, in Turchia, grazie a nostri passatori”.
Tanto lavoro costa caro, non tanto in danaro – “Ho speso di tasca mia circa 70 mila dollari”, racconta Abu Shujaa – quanto, soprattutto, in rischi. Negli ultimi due anni sono stati uccisi 17 collaboratori, e lui stesso riceve continue minacce di morte. Sulla sua testa, l’ISIS ha messo una taglia di mezzo milione di dollari.
F.M.R.
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