A Gerusalemme sono iniziati i restauri della Basilica del Santo Sepolcro. Diretti da Antonia Moropoulou dell’Università di Atene, dureranno otto mesi e costeranno l’equivalente di 3,5 milioni di dollari.
A darne notizia è stato re Abdallah II di Giordania, in una lettera inviata al patriarca greco-ortodosso Teofilo III. Il sovrano hashemita ha spiegato di aver pagato di tasca propria i lavori, che non si potevano più rimandare, visto il cattivo stato di conservazione delle strutture.
Non deve stupire che a mettersi le mani in tasca sia stato un sovrano musulmano. Secondo gli accordi presi al momento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna – riconfermati nei trattati di pace con Israele, negli anni ’90 – ai re di Giordania spetta la tutela dei luoghi santi anche cristiani, oltre che di quelli islamici, a Gerusalemme.
Ma nella forza con cui Abdallah si è impadronito della questione non c’è solo il desiderio di riaffermare le sue prerogative. La gestione della Basilica è affidata a sei comunità cristiane di diversa confessione: oltre ai greco-ortodossi ci sono i cattolici, gli armeni e gli ortodossi di Siria, Egitto (la Chiesa copta) ed Etiopia.
Anche quando tra le rispettive Chiese i rapporti sono pacifici, nella Basilica il buon vicinato è più che altro un ideale astratto. Per disciplinare la loro coesistenza esistono centinaia di norme, leggi e consuetudini – non tutte scritte – che a volte si contraddicono. In teoria, la suddivisione di tempi e spazi all’interno del luogo sacro dovrebbe essere stata fissata da un decreto del Sultano ottomano nel 1853. Ma da allora, tutte le iniziative che riguardano gli spazi condivisi – restauri compresi – devono essere prese all’unanimità. Un esempio degli effetti pratici del decreto: sulla facciata, appoggiata su un cornicione, da secoli fa bella mostra di sé una scala a pioli di legno. I cornicioni, infatti, sono compresi nell’elenco delle pertinenze comuni. La scala è stata spostata l’ultima volta nel 1997, ma solo per il tempo necessario a smontare le impalcature dei lavori di consolidamento della cupola, e poi è puntualmente tornata dov’era.
La scala è solo un esempio degli effetti macroscopici di cambiamenti a prima vista minimi. Nel 2002 scoppiò una rissa fra monaci perché uno di loro, un copto, per spostare all’ombra la sedia dov’era seduto, aveva invaso il settore degli etiopi. Gli ultimi incidenti fra religiosi risalgono al 2008: in due episodi distinti, ad aprile e a novembre, per sedare gli scontri è dovuta intervenire la polizia israeliana, sotto gli occhi di fedeli e visitatori. In un clima del genere, l’intervento del re di Giordania ha sortito l’effetto di separare i sei litiganti, e all’avvio dei lavori da più parti si è gridato al miracolo.
Si è trattato anche di un segno concreto di rispetto e dialogo da parte del re musulmano. Rispetto che, a onor del vero, i governanti di fede islamica hanno mostrato quasi sempre nei confronti di un luogo tanto importante per i cristiani. Secondo le cronache dell’epoca, il califfo Omar – il secondo successore di Maometto, che strappò all’impero bizantino tutto il Vicino Oriente – avrebbe visitato la prima Basilica, costruita sotto Costantino, ma si sarebbe rifiutato di pregare al suo interno: non voleva che le generazioni future cogliessero il gesto come un pretesto per trasformare la chiesa in moschea. E il suo successore che distrusse l’edificio costantiniano – al-Hakim, vissuto intorno all’anno Mille – passò alla storia come “il Pazzo”. Musulmana è anche la famiglia Nusaybeh, che dal 1192 si tramanda di padre in figlio la carica di custode dell’edificio. Li incaricò Saladino, il califfo che aveva riconquistato Gerusalemme dai crociati, proprio perché neutrali rispetto alle varie denominazioni cristiane. E ancor oggi, ogni giorno, Wajeeh Nusaybeh apre all’alba l’unica porta d’accesso alla Basilica e torna al tramonto per richiuderla.
L’edificio odierno è stato costruito in stile romanico sotto la dominazione cristiana e ristrutturato nel Cinquecento dai frati francescani. Oggi il degrado strutturale interessa le malte e i cementi, deteriorati dall’umidità, il legno indebolito da tarli e funghi, gli intonaci anneriti dal fumo delle lanterne. Da diversi decenni preoccupano le condizioni dell’Edicola del Santo Sepolcro, la cappella che contiene la camera tombale in cui si identifica la sepoltura di Gesù. La struttura è stata pesantemente danneggiata da un terremoto nel 1927, sotto il mandato britannico, e per evitare crolli è stata circondata da una gabbia di travi d’acciaio.
Durante i restauri, le travi saranno sostituite con una soluzione meno ingombrante. La direttrice dei lavori, Antonia Moropoulou, ha promesso alla stampa che il luogo di culto non sarà mai del tutto chiuso ai fedeli: i lavori interesseranno una sezione alla volta. La speranza di tutti è che le necessarie chiusure non si trasformino nella scintilla che scatenerà nuovi scontri fra le comunità cristiane.
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