Felici a tutti i costi. Magari solo in apparenza. Sembra che la felicita sia diventata non solo un obiettivo di vita, ma un diritto e un obbligo. Niente insuccessi, niente malattie, pensieri, preoccupazioni. Niente di niente se non i migliori risultati accompagnati da fortuna, vittoria, affermazione, ascesa, conquista, soldi e benessere. Ecco, in questo vortice di parole che possono rappresentare anche solo il senso dell’effimero, del vuoto, si cela per molti la felicità agognata.
Prendiamo ad esempio la domanda convenzionale “Come stai?” e scartiamo subito gli interlocutori che rispondono “abbastanza” – di norma, gli incontentabili o quelli che ambirebbero a svalangarti addosso tutta una serie di problemi veri o presunti – ed esaminiamo quelli del “Benissimo, grazie”: sono i mai dubbiosi, quelli delle certezze inconfutabili, che non ammettono debolezze e sfoderano sempre un sorriso smagliante. Costi quel che costi, pur di apparire felici ovunque. In tutti i luoghi. Dal posto di lavoro alle relazioni personali. È un modo d’essere, di porsi. Una ideologia nuova, che rispecchia i tempi in cui viviamo.
Pensare che nella lontana epoca (1982) in cui Albano e Romina erano ancora coppia, nella vita e nel canto, la felicità era “tenersi per mano e andare lontano”, “restare vicini come bambini”. Oppure, più prosaicamente, ” un bicchiere di vino con un panino”.
Oggi invece siamo condannati al successo e al benessere. Sia come singoli, sia in collettività siamo socialmente vittime dell’Happycracy, la scienza della felicità che controlla le nostre vite.
Happycracy è anche il titolo di un saggio dello psicologo Edgar Cabanas e della sociologa Eva Illouz pubblicato da Codice, uscito alla fine di marzo. Repubblica lo ha recensito nelle pagine culturali, attraverso un’intervista ai sui autori. I quali sostengono che oggi “la ricerca della felicità è insaziabile e implica un grave paradosso: la felicità, la cui vocazione sarebbe di realizzare un’identità sviluppata e una vita soddisfacente, è costretta a generare un racconto di mancanza che colloca gli individui in una posizione in cui qualcosa è sempre mancante: se non altro perché una felicità assoluta, o uno sviluppo personale completo, resteranno irraggiungibili”. E tutto ciò ha finito con il creare una tipologia di “cacciatori di felicità”, di “happycondriaci” fissati con “il proprio sé e preoccupati di cancellare ogni macchia della loro vita”, presente e futura.
Ma in questa continua ed esasperata ricerca dell’essere felici personalmente finisce che “perdiamo la capacità di impegnarci per altro oltre che per noi stessi. Perché è un concetto individualistico e la sua ricerca produce uno stile di vita ossessivo in cui l’unica preoccupazione è per la nostra vita psichica”. Per esempio prendiamo la felicità sul posto di lavoro. Bene, Cabanas e Illouz raccontano che essa è diventata “una strategia utile per giustificare implicite gerarchie organizzative di controllo e la sottomissione alla cultura aziendale”.
È in verità un paradosso perché, “se la felicità al lavoro promette maggiore responsabilizzazione ed emancipazione dal controllo aziendale, la realtà mostra come promuovere la felicità abbia ottenuto il contrario”. Nel senso che “è comoda per spingere il livello di responsabilità verso il basso, rendendo gli impiegati più responsabili sia del proprio successo o fallimento che di quello aziendale. Ed è stata un’alleata per ottenere maggiore impegno e risultati dai lavoratori, in cambio di riconoscimenti irrilevanti” spiegano i due autori. E va da sé che ciò che rende felici e appagate le aziende non necessariamente corrisponde con ciò che rende felici i lavoratori. Anzi, tutt’altro.
La categoria più appagata e felice? Gli adolescenti. Perché per lo loro la condizione della felicità ha finito con il diventare un imperativo categorico, sostengono i due studiosi. Nel senso che “Devono a ogni costo essere e mostrarsi felici e questo supera qualunque frontiera culturale, sociale e razziale: permea le nuove generazioni in modo indiscriminato. C’è una richiesta opprimente di creare e poi comunicare via social una versione di sé solo positiva”, dichiarano Cabanas e Illouz.
Forse bisognerebbe essere meno ebbri di felicità. Sarebbe meglio per tutti. Anche socialmente. Come spiegano i due autori e studiosi di psicologia dei comportamenti, “la rabbia può portare a scelte distruttive, infliggere umiliazioni, ma permette di sfidare l’autorità e di rafforzare i legami interpersonali davanti a ingiustizie o minacce condivise. Gli scienziati della felicità dipingono frustrazione, risentimento e odio come fallimenti nella formazione della psiche, ma sono emozioni fondamentali per la costruzione di dinamiche sociali quali i movimenti collettivi e la coesione dei gruppi”.
“Tant’è che “l’ideologia della positività diventa così uno strumento politico conservatore”, sostengono i due autori. Quasi una costrizione. E allora: felici ma schiavi, infelici ma liberi…? A ciascuno la propria insindacabile scelta.
A.B.
Giornalista per caso. Anni di ufficio stampa in pubbliche istituzioni, dove si legge e si scrive solo su precisi argomenti e seguendo ferree indicazioni. Poi, l'opportunità di iniziare veramente a scrivere. Di cosa? di tutto un po', convinta, e sempre di più, che informare correttamente è un servizio utile, in certi casi indispensabile.
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