77 anni. Un’infinità che solo a dirlo fa impressione. Un’attesa che sapeva di beffa. Wimbledon, “la parola magica che vuol dire tennis”, come da efficace slogan coniato dal grande Rino Tommasi, il luogo dove tutto ebbe inizio, non aveva più visto un suddito di Sua Maestà alzare al cielo di Londra la coppa del vincitore dal lontano 1936 quando, in piena epoca di “gesti bianchi”, vi era riuscito Fred Perry. Un’eternità.
Una beffa per coloro che il tennis (come quasi tutti gli sport, del resto) lo avevano inventato e codificato. “Abbiamo meno giocatori tra i primi 100 degli inglesi”, si diceva, a qualunque latitudine, per sottolineare un momento di particolare difficoltà di un movimento tennistico nazionale. Gli inglesi come pietra di paragone per evidenziare un fallimento. Tutto questo era diventato, negli anni, il tennis in terra d’Albione. Tutto questo imbarazzo è finito. E, come avvenuto poco più di ventiquattro ore prima con i Lions del rugby capaci di vincere una serie di test matches contro uno squadrone dell’emisfero australe (stavolta i Wallabies) dopo un digiuno che durava dal 1997 grazie a 10 gallesi sui 15 titolari, ancora una volta gli inglesi devono ringraziare chi inglese non è.
Andy Murray, 26 anni, scozzese di Dunblane, ha posto fine all’attesa di tutta la Gran Bretagna, facendo esultare i 15000 del Centre Court, tra cui anche il primo ministro David Cameron ( la cui presenza non viene considerata da queste parti come particolare segnale di buon auspicio, visto il recente conio dell’espressione “la maledizione di TutanCameron”), gli oltre 3000 appassionati che soffrivano davanti allo schermo installato ai piedi della “Murray Mount” (ribattezzata anche “Murray Field”, per fare il verso ad un altro tempio, quello del rugby scozzese), e non si sa quante persone collegate sugli schermi di tutta l’isola. Tre set a zero al “gemello diverso”( entrambi nati nel maggio 1987 ma separati da una sola settimana), Novak Djokovic, n. 1 del mondo. Un giocatore, il serbo, che dopo aver subito solenni sculacciate dallo scozzese quando i due coabitavano il circuito degli juniores, aveva sempre preceduto Andy in tutto: vittorie negli Slam, classifica, scontri diretti, fama. Ma, stavolta, la motivazione del britannico era superiore. Persino superiore all’enorme pressione che ogni anno un’intera nazione tennistica affamata di gloria gli riversa sulle spalle. Orgoglio britannico quando Murray vinceva, perdente scozzese quando usciva dal torneo anzitempo. Stavolta, il copione è stato diverso. Differente anche rispetto al primo urrà dello scozzese in uno Slam, quello americano dell’anno scorso, sempre contro Nole, in cui Andy aveva vinto tra mille sofferenze i primi due set per poi subire il rabbioso ritorno del serbo, salvo poi far sua la finale in un elettrizzante quinto parziale. Stavolta, Andy è sceso in campo più tranquillo e consapevole, fortificato nello spirito non solo da quel precedente nonché dall’oro olimpico conquistato proprio su questi campi, ma anche perché il suo battesimo del fuoco lo aveva già avuto nell’ultima edizione del torneo londinese. Le lacrime di delusione, all’atto della premiazione del settimo sigillo di Federer lui le aveva già versate. E questo ha contato. Come ha contato nella finale femminile dove la Bartoli, già sconfitta nel 2007, ha patito l’emozione meno della favorita rivale, Lisicki, novizia dell’atto conclusivo. Non che Djokovic fosse bloccato dall’emozione come la tedesca (del resto, anche il serbo aveva già disputato una finale qui, vincendola peraltro nel suo “annus mirabilis”, il 2011), ma è servito al britannico per approcciare più serenamente l’appuntamento con la storia che un’intera nazione aspettava da troppo tempo. Stavolta, al termine del 6-4 7-5 6-4, solo lacrime di gioia per Andy Murray. Meritate. Con un match sempre nelle sue mani, anche quando il n. 1 aveva prodotto una reazione d’orgoglio che lo aveva issato a 4-1 nel secondo set, con palla sciupata per il 5-2. Unico momento in cui la finale è parsa in bilico. Ma il più forte, stavolta, non era l’uomo di gomma venuto dalla Serbia. Murray non ha mai ceduto un millimetro e, come già accaduto con Verdasco e Janowicz, nei momenti difficili, ha sempre chiesto e ottenuto aiuto dal servizio. Colpo che, invece, ha tradito in troppe occasioni Djokovic abbandonandolo in tutti i momenti cruciali (su tutti il doppio fallo costatogli il contro break del 3-4 nel secondo set) e costringendolo a percentuali troppo basse per poter sperare di battere un avversario che, già dal fondo, faceva match pari. Decisamente troppi, poi, gli errori gratuiti, ben 40, commessi dal campione del 2011. E nessuno si era fatto troppe illusioni di vedere una finale riaperta anche quando Novak recuperava, nel terzo set, da 0-2 sino a condurre 4-2. Era chiaro che lo scozzese stesse semplicemente rifiatando. I brividi sono stati concentrati, quasi tutti, nel game conclusivo con Murray salito subito 40-0 e il rivale, finalmente centrato e combattivo, capace di risalire sino ad avere ben tre palle per il contro break. Poi, dopo il rovescio affossato in rete da Djokovic, spazio solo alla felicità di un uomo e di un’ intera nazione. Murray, va comunque sottolineato al di là della cattiva giornata del rivale, straordinario in tutte le occasioni in cui era costretto a rincorse, recuperi e a cercare passanti anche da fuori del campo. I passanti in corsa. Un marchio di fabbrica del tennis di Ivan Lendl. Il coach di Andy. Ed è stato giusto e anche molto bello che il vincitore, nel salutare tutto il suo clan, abbia voluto abbracciare, oltre alla fidanzata, anche le due persone cui deve di più: la mamma tennista, Judy, che gli ha trasmesso passione e ambizione, e, soprattutto, lui, Ivan. Cui ha voluto dedicare il successo. Ivan Lendl, un nome che, negli anni 80, era sinonimo di dominio assoluto in questo sport. Qualcosa di paragonabile al solo regno di Federer. Un nome che, però, non c’è tra quelli incisi sulla coppa dei Championships. Altra beffa. Altro risarcimento voluto dal destino dopo tanti tentativi vani. Ivan, sempre così parco di sorrisi e restio ad esternare le proprie emozioni, avrà apprezzato e, sia pure nell’intimo del suo animo, si sarà anche commosso. La coppa di Wimbledon, sia pure per interposta persona, l’ha potuta alzare anche lui. Sì, non sono stati solo Andy Murray e la Gran Bretagna a sconfiggere i propri demoni in una domenica tennistica che non dimenticherà nessuno.
Daniele Puppo
Napoletano, 44 anni, giornalista professionista con 17 anni di esperienza sia come giornalista che come consulente in comunicazione. Ha scritto di politica ed economia, sia nazionale che locale per diversi giornali napoletani. Da ultimo da direttore responsabile, ha fatto nascere una nuova televcisione locale in Calabria. Come esperto, ha seguito la comunicazione di aziende, consorzi, enti no profit e politici. Da sempre accanito utilizzatore di computer, da anni si interessa di internet e da tempo ne ha intuito le immense potenzialità proprio per l'editoria e l'informazione.
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