Appena 8 secondi di attenzione e la nostra mente è già altrove. Che cosa ci succede? E’ l’iperconnessione, la nuova sindrome dell’era digitale, che ci allontana dalla realtà. In teoria ci sentiamo tutti più partecipi grazie alla possibilità di fruire delle notizie più importanti in tempo reale. In pratica, invece, quasi nulla rimane nella nostra memoria dell’occhiata rapida che diamo a qualsiasi cosa appaia sullo schermo del nostro smartphone, soprattutto perché è diventato così rapido e comodo passare all’immagine, o alla notizia, successiva.
“8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione”, il libro di Lisa Iotti“
Come scrive con lucida analisi nell’introduzione al suo bel libro edito dal Saggiatore la giornalista Lisa Iotti: “Disquisire degli effetti dell’iperconnessione sul nostro cervello e sulle nostre capacità di apprendimento mi sembrava (durante la pandemia da Covid-19 ndr.) un capzioso esercizio di stile davanti alla monumentale opportunità di avere in tasca una scatoletta che mi consentiva di essere aggiornata in tempo reale sul virus, di leggere tra le pieghe di Twitter l’ultimo studio sulla malattia, ancora non revisionato, ma già scodellato in rete da un oscuro virologo in qualche landa remota dell’emisfero australe e confrontarlo con il paper uscito poche ore prima in un altro angolo del pianeta, che diceva magari l’esatto contrario”
Secondo la Iotti, ma chi tra di noi, come lei, non ne è stato sedotto? “L’immediatezza e l’incredibile disponibilità dei dati mi eccitava […] Ogni mattina, un cameriere virtuale a forma di algoritmo apparecchiava sul monitor del mio iPhone tutto quello che era uscito nel globo sul Covid-19 e io, neanche un’ora dopo, ero pronta a discettarne come fossi una biologa molecolare di lungo corso”.
L’euforia, per la Iotti e per tutti noi è durata però solo poche settimane: “a mano a mano che l’isolamento continuava e aumentavano le mie ore di connessione, mi sono resa conto che non capivo niente. […] Ero del tutto incapace di mettere un argine a quello scroll dello schermo ossessivo e, nello stesso tempo, non riuscivo a processare la quantità infinita di informazioni che la rete rigurgitava a getto continuo sul virus, ritrovandomi senza più nessuno strumento cognitivo per distinguere l’essenziale dall’irrilevante, il massimo esperto in recettori cellulari dal signor nessuno che diceva la sua. Ero fisicamente travolta da tutta quell’orizzontalità informativa”.
Quella che all’inizio era sembrata alla Iotti, e a noi tutti, una straordinaria occasione, si è trasformata in poche settimane in un boomerang cognitivo.
Come è potuto accadere? Come spiegava in un articolo di qualche tempo fa la psichiatra francese Laurent Karila: “Uno smartphone è un cordone ombelicale psicosociale, un’estensione elettronica dell’io-Sé. È anche un e-doudou (l’equivalente di un orsacchiotto o della copertina di Linus in versione elettronica ndr.) con una componente tattile. Ha una funzione ansiolitica e ipnotica ed è una vera interfaccia relazionale!”. E a subirne il fascino non sono solo i nativi digitali e i bambini, ma anche gli adulti, che fingono di ignorarne le conseguenze sulle proprie prestazioni lavorative e sociali.
Non tutti sono concordi nel definire la nostra interazione con gli smartphone una vera e propria “dipendenza” qualcuno vorrebbe utilizzare il meno allarmante termine di “abuso” e attribuirlo solo ad un gruppo di individui dal quale si chiamano fuori, ma gli esiti di una lunga serie di studi scientifici documentano che l’80% dei possessori di smartphone lo controlli tutte le mattine come prima cosa dopo essersi svegliato, per non parlare di quelli che soffrendo di insonnia si affidano al dispositivo per cercare di riaddormentarsi conseguendo invece l’effetto opposto di rimanere svegli per ore, tra un post di Facebook e l’ultim’ora da oltre oceano.
In uno studio più recente del dipartimento di Antropologia dell’università della California, le persone, mentre lavorano, non riescono a stare in media più di 40 secondi senza cambiare dispositivo, passando per esempio dal computer allo smartphone(contro i tre minuti di dieci anni fa). E trattandosi di un tempo medio è ovvio che in alcune situazioni potrebbe accadere di essere interrotti in continuazione dalle notifiche di Whatsapp o di altri social media, in altri invece si potrebbe rimanere concentrati molto più a lungo. Ma è evidente che è la capacità di essere focalizzati e concentrati durante lo svolgimento di un lavoro a pagarne le conseguenze.
Il mito del multitasking
Se c’è qualcuno che è ancora convinto che saltabeccare da un’attività all’altra sia il segno di una capacità maggiore di gestire più informazioni contemporaneamente e dunque di una maggiore produttività si sbaglia di grosso. Il mito del multitasking che ci rende capaci di affrontare più compiti contemporaneamente è per l’appunto un mito, che è stato demolito da numerosi studi scientifici
Come scrive nel suo studio la professoressa Gloria Mark è una questione cerebrale: il nostro cervello non è in grado di “fare due cose nello stesso momento, a meno che non siano gesti estremamente automatizzati. In realtà quello che facciamo è switchare, alterniamo avanti e indietro, rapidissimamente”. Il che ha dei grandissimi costi, in termini di tempo e prestazioni, per il necessario “cambio di contesto” o “context switching” come lo chiamano gli esperti anglosassoni, cioè la necessità diriconfigurare il nostro pensiero, ad ogni passaggio, per rimettere letteralmente la testa su quello che stiamo facendo.
La conclusione cui giunge la psichiatra è impietosa: “Abbiamo dimostrato che mentre le persone sono al lavoro e stanno facendo qualcosa di importante improvvisamente si fermano, prendono in mano il telefono, e si mettono a chattare o a controllare i social. Non possono più farne a meno”. Affermazioni che probabilmente molti di noi possono avvalorare riconoscendole come proprie abitudini. Tanto più che se è vero che il sistema delle notifiche è fatto apposta per richiamare l’attenzione sempre più personesoffrono, probabilmente inconsapevolmente, della “sindrome della notifica fantasma” o della “sindrome della vibrazione fantasma” che porta a credere di aver ricevuto messaggi o aver sentito vibrare il telefono anche quando questo non accade, spingendoci però a controllare immediatamente lo smartphone, con buona pace della concentraziome.
Non è però tutta colpa nostra. Tristan Harris, ex responsabile dell’etica del design di Google è oggi in prima linea nella battaglia per costringere i colossi digitali a creare prodotti che diano meno dipendenza. In uno dei suoi post Harris ha evidenziato come non siamo noi a mancare di forza di volontà, ma siano siti e social network a essere progettati per rubarci tempo e informazioni, da aziende milionarie, in cui migliaia di dipendenti sono al lavoro per concepire strategie e algoritmi che siano letteralmente irresistibili.
Quello che possiamo fare tutti è ammettere di essere stati abilmente circuiti e decidere se è arrivato il momento di difendere la libertà della nostra mente e il nostro tempo con la stessa intensità con cui abbiamo imparato in questi anni a difendere la nostra privacy.
Elisa Rocca
Giornalista per caso. Anni di ufficio stampa in pubbliche istituzioni, dove si legge e si scrive solo su precisi argomenti e seguendo ferree indicazioni. Poi, l'opportunità di iniziare veramente a scrivere. Di cosa? di tutto un po', convinta, e sempre di più, che informare correttamente è un servizio utile, in certi casi indispensabile.
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