Il caos in Libia? Colpa degli alleati, soprattutto di Francia e Gran Bretagna. Lo dice il presidente USA Barack Obama in una serie di interviste concesse alla rivista The Atlantic.
Gli amici di Washington in Europa – ma anche nel Golfo Persico: si pensi alle guerre locali che l’Arabia Saudita alimenta in tutto il Medio Oriente – si sarebbero comportati da free rider: avrebbero partecipato alle iniziative internazionali solo per raccoglierne i frutti, senza alcuna intenzione di partecipare alle spese, e trascinando gli americani in interminabili conflitti settari a sostegno dei loro interessi di bottega. L’espressione inglese indica chi viaggia a scrocco sui mezzi pubblici, anche quando si può permettere di pagare un biglietto. Un atteggiamento opportunista che “indispettisce” il presidente USA.
A meno di un anno dalla scadenza del suo secondo e ultimo mandato, Obama fa autocritica su uno dei suoi errori più gravi: l’intervento internazionale del 2011 in Libia, che ha spazzato via il regime libico di Muammar Gheddafi, ma non è riuscito a sostituirlo con uno Stato in grado di governare.
Concepito dalle menti di Washington – tra cui l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, probabile candidata democratica alle prossime presidenziali – sulla carta aveva tutte le carte in regola: mandato ONU, coalizione di “volenterosi”, operazioni mirate che hanno evitato un bagno di sangue, costi contenuti (si parla di un miliardo di dollari: per un’operazione militare, soprattutto a confronto con quelle in Iraq e in Afghanistan, sono briciole). Ma la macchina non ha funzionato e la Libia è implosa. Non è irrilevante nemmeno il prezzo pagato dagli USA: l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre suoi connazionali sono morti nel 2012 in un attentato a Bengasi.
“Quando torno indietro e mi chiedo cosa è andato storto c’è spazio per le critiche, perché avevo più fiducia che gli europei, data la vicinanza alla Libia, investissero nel follow-up”. In pratica, Obama accusa britannici e francesi di essersi preoccupati più di fare bella figura con gli altri governi che di risolvere problemi reali. L’accusa per il premier britannico David Cameron è di esseri lasciato distrarre da altre questioni. E il presidente francese Nicolas Sarkozy non perdeva occasione per vantarsi di ogni aereo libico abbattuto, anche quando l’aviazione USA aveva già messo fuori combattimento i sistemi di difesa dall’alto di Gheddafi.
Ai sauditi, Obama rimprovera di dover ancora imparare a coesistere con l’Iran in Medio Oriente. “Devono trovare un modo efficace di condividere il vicinato e istituire una pace fredda”: non possono sperare che l’America li segua in ogni iniziativa, perché usare la forza per “azioni punitive” non è “nell’interesse degli USA né del Medio Oriente”.
In compenso, il presidente rivendica con orgoglio di aver deciso di non bombardare la Siria nel 2013. “È stata una decisione difficile”, ricorda: per i raid punitivi contro il presidente Bashar al-Assad, reo di aver usato armi chimiche contro il suo popolo, era tutto pronto.
Sapevo che premere il pulsante di pausa per me avrebbe avuto un costo politico, ma sono riuscito a svincolarmi dalle pressioni e pensare in modo autonomo a quale fosse l’interesse dell’America, non solo rispetto alla Siria ma anche rispetto alla democrazia.
La decisione arrivò il 31 agosto, all’indomani di un discorso del Segretario di Stato John Kerry, subentrato alla Clinton, che sembrava proprio una dichiarazione di guerra. Lo stesso Kerry ha ammesso di aver creduto che a quel punto le bombe fossero inevitabili. Obama invece stupì tutti. La decisione gli ha attirato pesanti critiche anche dal suo stesso campo, ad esempio da Hillary Clinton.
Non aver costruito una credibile forza in aiuto delle persone che originarono le proteste contro Assad ha lasciato un grande vuoto che ora stanno riempiendo i jihadisti.
Ma il presidente decise che non avrebbe ripetuto in Siria gli errori della Libia e non avrebbe seguito la prassi USA, quella che chiama “il libro delle regole di Washington”. Prassi che invariabilmente comporta l’uso della forza. “Quando l’America è minacciata direttamente – osserva – il libro funziona, ma può anche diventare una trappola che ti porta a decisioni sbagliate”. E rivela il comandamento che sostiene di dover rispettare, in quanto primo presidente USA dopo George W. Bush: “don’t do stupid shit”, non fare stupidaggini.
Filippo M. Ragusa
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