Libia, se ISIS attacca ENI pronti marò e parà

Come si può impiegare un drone per una missione “difensiva”? La domanda è nell’aria da giorni, da quando il Wall Street Journal ha rivelato che l’Italia concederà agli USA la base di Sigonella per le missioni degli Hellfire contro l’ISIS.

Il carattere difensivo delle missioni è una delle condizioni poste dal governo italiano per far partire dalla Sicilia gli aerei senza pilota. In pratica, gli undici apparecchi – già schierati a Sigonella, dove però oggi svolgono solo compiti di ricognizione – sarebbero armati per fare da scorta aerea alle missioni di terra delle forze speciali USA.

Quanto è plausibile una ricostruzione del genere? Poco, per gli esperti. “Ma quale funzione difensiva! Non nascondiamoci dietro un dito”, ha detto a IlFattoquotidiano.it il generale Fabio Mini, ex comandante della missione NATO in Kosovo. Le forze speciali, spiega, sono “sempre in pericolo durante le loro incursioni, quindi anche seguendo questa logica i droni dovrebbero intervenire sempre per fornire copertura aerea”. Ma non è tutto:

Questo tipo di velivolo non viene usato in appoggio e protezione alle forze a terra ma, al contrario, sono queste che individuano e forniscono le coordinate esatte del bersaglio che il drone deve colpire e distruggere. Da Sigonella verranno lanciati attacchi di precisione, altro che funzione difensiva.

Il coinvolgimento italiano in Libia, quindi, risulta già più alto di quanto ammette il governo. Ieri, dopo la riunione del Consiglio supremo di Difesa, il Quirinale ha diffuso una nota in cui annuncia di aver “attentamente valutata la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del Governo di Accordo Nazionale – ancora fermo ai blocchi di partenza per l’impasse della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, impantanata nei veti incrociati di sostenitori e oppositori del generale Khalifa Haftar – sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche”.

Perché tanta reticenza? Prima di tutto, perché ammettere di essere già in guerra o giù di lì metterebbe l’Italia sullo stesso piano degli altri Stati che attivamente combattono l’ISIS, e ne farebbe un obiettivo primario di atti terroristici.

Secondo l’analista Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it, si rischiano “sanguinose rappresaglie e attentati” come quelli avvenuti in Francia, in Libano, contro i turisti tedeschi a Istanbul e contro il volo charter russo sul Sinai. Per questo “il governo italiano avrebbe preferito ‘non dare pubblicità’ a questo accordo”. Ad ogni modo, come ha scritto già due giorni fa il Corriere della Sera, il Viminale ha già alzato il livello di allarme terrorismo.

Anche l’ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, il generale Leonardo Tricarico, ricorda la guerra del Kosovo del 1999. In quel periodo “si parlò di ‘difesa integrata’ per coprire il fatto che i nostri Tornado bombardavano l’ex Jugoslavia, così da mettere a tacere le opposizioni in Parlamento e l’opinione pubblica contraria alla guerra”.

Obiettivi ideali per i raid dei jihadisti sarebbero le installazioni petrolifere dell’ENI: ad esempio il terminal di Mellitah, distante solo 20 chilometri da Sabrata, dove in questi giorni si combatte senza esclusione di colpi.

A difesa degli impianti sono schierati contractor privati e la Petroleum Facilities Guard libica. Se non bastassero, sono pronti a intervenire gli incursori del Comsubin, le forze speciali della Marina militare, e i marò del reggimento San Marco imbarcati sulle navi impegnate nella missione “Mare sicuro”. Secondo fonti ancora non confermate, i parà del 9° reggimento “Col Moschin” sarebbero già a Sabrata.

Come in Libia, del resto, anche in Iraq le denominazioni ufficiali non renderebbero giustizia al livello di coinvolgimento delle nostre forze armate. Nei prossimi mesi, circa 500 soldati con carri armati, elicotteri e artiglieria raggiungeranno Mosul per “proteggere gli operai italiani” della Trevi, la ditta di Cesena incaricata di lavorare al consolidamento della diga pericolante sul Tigri. Ma la “vera natura della spedizione militare italiana”, secondo Gabriele Iacovino del Centro Studi Internazionali, è un’altra: sarebbe stata “richiesta dal Pentagono, che in quell’area strategica a pochi chilometri dalle roccheforti dell’ISIS vuole un forte avamposto militare alleato, un trampolino di lancio in vista della grande offensiva per la riconquista di Mosul”.

F.M.R.

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