Verrebbe quasi da dire che non è vero che l’erba cattiva non muore mai. A smentire il vecchio detto popolare è arrivata la notizia della morte del boss Bernardo Provenzano, la Primula Rossa che ha latitato per 43 lunghi anni, Il Ragioniere sulle cui spalle pesavano 20 ergastoli, Binnu u’ Tratturi – Bernardo il trattore, così anche soprannominato per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici, ha terminato la sua vita terrena di criminale, membro di Cosa Nostra e e considerato il capo dell’organizzazione a partire dal 1993 fino al suo arresto.
Il capomafia era detenuto al regime di 41 bis nell’ospedale San Paolo di Milano. Tutti i processi in cui era ancora imputato, tra cui quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, erano stati sospesi perché, sottoposto a più perizie mediche, era stato ritenuto incapace di partecipare. Grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento: è l’ultima diagnosi che i medici dell’ospedale hanno depositato. Nelle loro conclusioni i medici dichiaravano il paziente “incompatibile con il regime carcerario”, aggiungendo che “l’assistenza che gli serve e’ garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza”. Da anni l’avvocato del boss, Rosalba Di Gregorio, aveva chiesto senza successo, la revoca del regime carcerario duro e la sospensione dell’esecuzione della pena per il suo assistito, proprio in virtù delle sue condizioni di salute.
Provenzano, ottantatrè anni, malato da tempo, venne arrestato l’11 aprile 2006 in una masseria a Corleone, a poca distanza dall’abitazione dei suoi familiari, dopo una latitanza durata 43 anni.
Nato a Coreolone da una famiglia di agricoltori, terzo di sette figli, venne ben presto mandato a lavorare nei campi come bracciante agricolo insieme al padre Angelo, abbandonando la scuola (non finì la seconda elementare). Fu in questo periodo che Provenzano iniziò una serie di attività illegali, specialmente il furto di bestiame e generi alimentari, e si legò al mafioso Luciano Liggio, che lo affiliò alla cosca mafiosa locale. Nel 1954, esonerato dal servizio di leva, iniziò ad occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada “Piano di Scala”, a Corleone, insieme a Liggio e alla sua banda. Il 6 settembre 1958 Provenzano partecipò ad un conflitto a fuoco contro i mafiosi avversari Marco Marino, Giovanni Marino e Pietro Maiuri, in cui rimase ferito alla testa ed arrestato dai Carabinieri, che lo denunciarono anche per furto di bestiame e formaggio, macellazione clandestina e associazione per delinquere.
Il 10 settembre 1963 i Carabinieri di Corleone denunciarono Provenzano per l’omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva (ex sodale di Michele Michele Navarra) . Si rese allora irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza. Nel 1969 Provenzano venne assolto in contumacia per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari per gli omicidi avvenuti a Corleone a partire dal 1958.
Secondo le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia partecipò alla cosiddetta «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), che doveva punire il boss Michele Cavataio: durante il conflitto a fuoco, Provenzano rimase ferito alla mano ma riuscì lo stesso a sparare con la sua Beretta MAB 38; Cavataio rimase a terra ferito e Provenzano lo stordì con il calcio della Beretta, finendolo a colpi di pistola.
Secondo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della Famiglia di Corleone dopo l’arresto di Liggio, ricevendo anche l’incarico di reggere il relativo “mandamento”.
Secondo le indagini dell’epoca dei Carabinieri di Partinico, Provenzano trascorreva la sua latitanza prevalentemente nella zona di Bagheria ed effettuava ingenti investimenti in società immobiliari attraverso prestanome per riciclare il denaro sporco.
Nel 1981 Provenzano e Riina scatenarono la cosiddetta «seconda guerra di mafia», con cui eliminarono i boss rivali ed insediarono una nuova “Commissione“, composta soltanto da capimandamento a loro fedeli; durante le riunioni della “Commissione”, Provenzano partecipò alle decisioni e all’organizzazione di numerosi omicidi come esponente influente del “mandamento” di Corleone e protesse più volte con l’intimidazione la carriera politica di Vito Ciancimino, principale referente politico dei Corleonesi: infatti negli anni successivi il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè dichiarerà che Riina e Provenzano «non si alzavano da una riunione se non quando erano d’accordo».
Nel 1993, dopo l’arresto di Riina, Provenzano fu il paciere tra la fazione favorevole alla continuazione degli attentati dinamitardi contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) e l’altra contraria (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri): secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, Provenzano riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in “continente”, mentre l’altro collaboratore Salvatore Cancemi dichiarò che, durante un incontro, lo stesso Provenzano gli disse che “tutto andava avanti” riguardo alla realizzazione degli attentati dinamitardi a Roma, Firenze e Milano, che provocarono numerose vittime e danni al patrimonio artistico italiano.
Dopo gli arresti di Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Vito Vitale, Provenzano avviò la cosiddetta “strategia della sommersione” perché mirava a rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati del 1992-93, limitando al massimo gli omicidi e le azioni eclatanti per non destare troppo l’attenzione delle autorità al fine di tornare a sviluppare gli affari leciti ed illeciti.
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