Ha destato scalpore la notizia, resa nota questa mattina dal quotidiano Il Messaggero, dell’uomo di 60 anni morto qualche giorno dopo il trapianto di cuore. L’intervento con esito infausto è stato effettuato la scorsa estate all’ospedale San Camillo di Roma. L’espianto è avvenuto invece al San Raffaele di Milano, ed ora sono state aperte due inchieste: una della procura e una interna dell’ospedale di provenienza dell’organo trapiantato. Perché “è inaccettabile morire dopo un trapianto di cuore”, dice la ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, che annuncia “immediate procedure di controllo e verifica” sul caso di un uomo cardiopatico morto un anno fa nell’ospedale San Camillo di Roma dopo il trapianto di un cuore da Milano. Dal Centro nazionale trapianti assicurano però che “tutte le procedure sono state rispettate e l’organo, dopo gli esami, è risultato idoneo al trapianto”. Anche al San Camillo i medici che hanno preso in consegna il cuore del 48 enne, morto dopo un tuffo in piscina, da impiantare nel paziente di 60 anni deceduto in seguito per insufficienza cardiaca. L’intervento risale al 30 agosto 2016, la morte cinque giorni dopo, il 4 settembre.
Ma il trapianto di cuore “non è purtroppo un intervento a rischio zero”, come precisa il prof. Francesco Musumeci, direttore della U.O.C. di Cardiochirurgia e e Trapianti del San Camillo. Il 15% di chi riceve un trapianto di cuore muore entro l’anno, in maggioranza nel periodo immediatamente successivo all’intervento. Lo ricorda Michele Pilato, direttore del dipartimento di cardiochirurgia e trapianti dell’Ismett di Palermo, commentando il caso del paziente trapiantato morto a Roma. “E’ impossibile che un cuore infartuato venga trapiantato – sottolinea Pilato – perché sul donatore vengono fatti esami, dall’ecocardiogramma alle analisi di marker nel sangue, che rileverebbero la presenza di problemi. L’organo viene valutato anche da chi lo espianta, che si accorgerebbe di anomalie”. Quello che potrebbe aver danneggiato il cuore, afferma Pilato, è il periodo tra l’espianto e l’impianto nel paziente da trapiantare, durante il quale l’organo rimane privo di ossigeno. “Il cuore viene preservato con una soluzione fredda, che ne abbassa il più possibile il metabolismo – spiega l’esperto -, ma il tempo passato prima della perfusione può comunque creare danni. La situazione di minor rischio è ovviamente se l’espianto avviene nella sala operatoria di fianco, e il cuore trapiantato in un paziente in buone condizioni fisiche. Quella peggiore è ovviamente se l’organo rimane 3-4 ore senza ossigeno per il viaggio, e se il paziente magari non è al primo intervento o comunque non in condizioni ottimali”. Il fatto che il donatore abbia subito un arresto cardiaco non è indicativo. “Il cuore può fermarsi anche per ipossia, cioè per mancanza prolungata di ossigeno, ad esempio per annegamento – sottolinea Pilato -. In quel caso i danni al cervello, che è più delicato, impediscono la ripresa, ma il cuore rimane sano”.
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