Esiste in Italia da più di trent’anni un’associazione che si impegna a preservare, insieme ad amministrazioni e popolazione locale, il senso del selvaggio del nostro territorio. E’ la AIW – Associazione Italiana Wilderness. Il termine scozzese di origine celtica (si pronuincia uìlderness) non è un superficiale ossequio alla cultura anglofona, ma è la dichiarazione di appartenenza ad una cultura che individua negli statunitensi H. D. Thoreau e Aldo Leopold i propri padri fondatori. Sono gli uomini che hanno dato origine alla filosofia ambientalista mondiale e che con il termine wilderness hanno designato uno stato d’animo in cui essere umano, animali selvatici e piante si percepiscono come appartenenti ad un unico grande sistema.
Ma quali sono le specificità e le attività di AIW? Ne parliamo con Giorgio Aldo Salvatori, da poco nominato Presidente dell’Associazione, giornalista per oltre trent’anni per il Tg2, e che nei suoi numerosi reportage si è occupato soprattutto della tutela del Paesaggio e di Beni Culturali, meritando per questo il Premio Italia Nostra e l’Airone d’argento Giorgio Mondadori.
Perché c’è bisogno di un’associazione come AIW, non bastano le tutele già in atto ad esempio nei parchi e nelle riserve naturali italiane?
I parchi, così come vengono vissuti oggi, sono in realtà un’attuazione degenerata dell’idea che li ha portati alla luce. Giorgio Boscagli, noto naturalista e oggi direttore del Parco Nazionale Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, li ha definiti con un’intuizione felice “Luna Parchi”. Sono cioè dei luoghi dove si attua, così come nelle nostre città d’arte, un turismo di massa dissennato. Basti pensare che questa estate nel parco dell’Appennino Lucano, dove nidificano grifoni e l’unica coppia in Italia di Capovaccaio, si è svolto un rave party con musica a tutto volume e la partecipazione di centinaia di persone. Ma non è il solo caso, in altri parchi si organizzano eventi sportivi estremi, come gare automobilistiche. Tutto ciò compromette l’ecosistema e il naturale bisogno di quiete che le zone protette dovrebbero garantire agli animali e alle piante che le abitano. La prima differenza perciò tra ciò che promuoviamo noi e i parchi esistenti è la nostra insistenza per garantire quiete, silenzio e un numero ristretto di accessi alle aree di cui ci occupiamo. In questo ci troviamo perfettamente d’accordo col grido di allarme lanciato recentemente da Reinhold Messner che si batte contro la presenza eccessiva di turisti in alta quota: gli proporremo la nostra tessera onoraria. La natura per noi va vissuta come un tempio.
In cos’altro si distingue la vostra azione?
Non imponiamo vincoli dall’alto. Abbiamo messo ad oggi sotto tutela circa 52.000 ettari di territorio pubblico, privato o già parte di aree protette dai parchi, sempre passando per il consenso e la collaborazione delle amministrazioni e delle popolazioni locali. Sono loro i primi a conoscere il proprio territorio e a beneficiare della sua tutela. Non può essere il burocrate, o l’abitante della città dal suo salotto, a regolamentare la vita di un territorio dove chi ci vive svolge anche le proprie attività. Noi accettiamo un compatibile ed equilibrato utilizzo delle zone protette da parte dell’uomo, un utilizzo razionale e tradizionale delle risorse naturali rinnovabili permettendo ad esempio la raccolta di frutti e di funghi, e persino in taluni casi, consentendo la caccia, purché sia attuata in osservanza delle regole nazionali e regionali ed ispirata a principi etici di rispetto della fauna e del territorio che si attraversa durante la battuta. Sappiamo che in tal modo l’essere umano sta svolgendo la sua naturale funzione di membro integrante ed attivo del ciclo vitale. Come sosteneva Aldo Leopold, un cacciatore che poi imparò ad autolimitarsi diventando punto di riferimento per il movimento ecologista mondiale, “l’uomo può entrare in natura e prelevare ciò che non crea squilibrio”.
Quali caratteristiche devono avere i territori per essere inseriti nella sfera di protezione Wilderness?
Per aree selvagge intediamo quei territori ancora integri, senza pesanti segni di manomissione da parte dell’uomo, abitati da fauna selvatica e da flora spontanea e originaria, e che necessitano di tutela per preservarli dal rischio di diventare sede di grandi opere antropiche o di essere attraversati da strade e vie di penetrazione motorizzate. L’Associazione nasce nel 1985 per volontà di Franco Zurlino, già guardia parco del Parco Nazionale Gran Paradiso, e uno dei primi a promuovere lo studio e la salvaguardia dell’orso bruno marsicano, quando negli anni ’70 si spostò in Abruzzo su incarico del WWF Italia. Capì allora che si salvano solo le aree integrali, cioè quelle preservate nella loro interezza: territori indisturbati da lasciare per sempre selvaggi; mentre sono a rischio quelle aree, seppur protette, dove si permette un accesso indiscriminato. Amministratori e popolazione devono comprendere che il turismo di massa depreda i loro territori e li lascerà privi di risorse. Non possiamo svendere il nostro patrimonio naturale in nome di un profitto momentaneo. La salvaguardia della wilderness è un bene per tutti, soprattutto per le prossime generazioni.
A proposito di nuove generazioni, come vede il movimento guidato da Greta Thunberg e il sostegno che ha ricevuto soprattutto tra i più giovani?
Non siamo certo tra quelli che la offendono mediaticamente e ben venga questo risveglio ambientalista tra i ragazzi. Tuttavia noto nella sua azione di protesta non poche contraddizioni. Per esempio Greta tende a mettere sotto accusa principalmente il mondo occidentale, eppure oggi sono stati asiatici come la Cina e l’India ad essere tra i maggiori inquinatori. Certo oggi c’è un problema globale, ma vorrei che riuscissimo a insegnarealle nuove generazioni a tutelare il proprio microcosmo, per poi andare ad occuparsi del macrocosmo e degli equilibri mondiali.
In concreto come opera l’Associazione Italiana Wilderness?
Il lavoro principale, una volta individuate le aree da salvaguardare, è quello di sensibilizzare le amministrazioni e la poloazione locale sui valori ambientali intrinseci ed unici presenti sui loro territori. Quando ne prendono coscienza si fanno essi stessi garanti della loro difesa; ed è con loro che stipuliamo un protocollo di comportamento che garantisca il rispetto della wilderness di un luogo. In alcuni casi, grazie a lasciti, donazioni e contributi di nostri sostenitori siamo anche in grado di acquisire direttamente i terreni e porli sotto vincolo. Le Aree Wilderness, sono de facto aree protette non ancora riconosciute dall’ordinamento legislativo italiano e tuttavia sono inserite nella classificazione internazionale predisposta dall’IUCN – organismo dell’ONU. Ad oggi queste Aree assommano a 68, suddivise in 108 Settori e distribuite in 20 province, tra Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lazio, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.
E’ mai successo in 35 anni che gli amministratori o i proprietari di un’area Wilderness decidessero di uscire dal protocollo?
Solo in un caso e per un breve periodo, un amministrazione pubblica di nuova nomina ha sospeso momentaneamente la tutela voluta dalla precedente amministrazione. Ma sono bastati pochi mesi e tutto è rientrato. Hanno capito loro per primi che salvaguardare il territorio è un atto che supera le faziosità della politica.
Quali sono oggi le maggiori sfide per la vostra associazione?
Il nostro obiettivo, direi quasi la nostra fissazione, è far comprendere soprattutto la filosofia della Wilderness. I protocolli che chiediamo di far rispettare non sono calati dall’alto, sono il frutto di una riflessione profonda sul rapporto sostenibile tra essere umano e ambiente naturale. Il rischio, se non tuteliamo questi ultimi territori integri rimasti è che perderemo il senso del selvaggio, cioè l’idea che esistano posti riservati e intimi dove ritrovare un contatto profondo con la natura e con il nostro spirito. Ma è una mentalità che si fa fatica a far comprendere, anche agli abituali frequentatori dei Parchi Naturali: la difficoltà maggiore oggi è spiegare a chi arriva in mountain bike al Parco Nazionale d’Abruzzo che non gli è concesso andare dappertutto, alcune zone vanno lasciate intatte. In fondo le regole sono semplici: rispettare il silenzio ed entrare in natura in punta di piedi.
Elisa Rocca
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