Guardare la televisione non è solo un passatempo o un modo per informarsi a tutto tondo. Significa soprattutto assistere, passivamente, a un’imboccata di contenuti che non sono sempre legittimati nella loro esistenza. Un grosso calderone dove ribollono – in un’unica pietanza – ingredienti a loro volta dissonanti, come la musica, la cultura, l’informazione, i programmi per bambini ma anche l’aggressività e il sesso.
Le reazioni sono tutte diverse, tranne quando si parla di violenza. Assistere a scene violente in televisione consente di scaricare le proprie pulsioni aggressive e conduce lo spettatore ad essere, di conseguenza, primo attore degli atteggiamenti e dei comportamenti violenti sul piano della realtà. Numerose ricerche psicosociali, condotte negli anni, hanno confermato che l’aggressività e la relativa visione della violenza hanno un certo grado di interdipendenza, e che soggetti più aggressivi tendono a guardare televisione più violenta.
Ma non sono solo i contenuti violenti a rendere lo spettatore aggressivo; è infatti anche lo spettatore violento a preferire spettacoli negativi dal punto di vista qualitativo. Ed è quindi nell’analisi di chi produce il film, e non solo di chi lo sceglie, che dobbiamo rintracciare le cause del mercato della produzione televisiva e cinematografica violenta. Il discorso si complica quando la televisione trasmette scene violente di carattere sessuale e pornografico. La pornografia, di per sé, non crea la predisposizione alla violenza, ma può rafforzarla ed esacerbarla se è già esistente: uno degli effetti più gravi è la desensibilizzazione del fruitore a tutte le manifestazioni di dolore e alla visione della sofferenza di vittime reali che vengono considerate come ‘oggetti’. Quando, in particolare, la visione riguarda scene di violenza e sopraffazione fisica contro le donne, ovvero la pornografia violenta, si sollecita tutta una serie di emozioni correlate di difficile elaborazione. Solitamente, i film pornografici, o gli sceneggiati che ne contemplano qualche frammento, tendono a evidenziare, erroneamente, il piacere della donna che subisce lo stupro e il piacere di chi lo commette come atto di potere su di lei. Come dimostrato da diversi studi psicosociali, la pornografia violenta eccita sessualmente gli stupratori recidivi e illude l’uomo che alla donna piaccia veramente la violenza perpetrata su di lei. Ciò accade anche quando le scene ritraggono le donne che esprimono dolore e fastidio, in tali circostanze. Anzi, forse, sono per lo più scene di questo tipo ad attivare e alimentare significati sadici di difficile risoluzione, che incontrano spesso giustificazioni di tipo culturale.
Cos’è che lega l’uomo alla violenza? Una prima risposta è rintracciabile già dall’etimologia di entrambe le parole: uomo e violenza traggono la loro origine dalla parola latina vis – vir che richiama il concetto di violenza secondo alcuni filologi, e di vita secondo altri studiosi. La violenza, infatti, si lega alla vita anche secondo le narrazioni relative all’origine del mondo: la storia dell’umanità si apre, infatti, con un fratricidio. E questo sarà un tema piuttosto ricorrente in altre teorie umanistiche che raccontano il delicato equilibrio della vita e della morte.
La visione ripetuta di scene violente in televisione, come anche nei videogiochi, può portare sia a una forma di disinibizione del comportamento, sia a una desensibilizzazione emozionale. Per la prima, si sostiene che i media possano favorire comportamenti violenti che, sebbene facciano parte del repertorio personale di ciascuno, sono normalmente inibiti; per la seconda ipotesi, l’esposizione continua a fenomeni violenti determina un calo della sensibilità emotiva alla violenza, riconosciuta come un normale sentimento e comportamento. Se a queste considerazioni aggiungiamo i principi della teoria comportamentista dei rinforzi sociali, emerge un quadro dell’aggressività piuttosto allarmante: la violenza diventa un comportamento adeguato e giustificato. E ciò che accade soprattutto considerando lo sviluppo psicoevolutivo del fruitore. Un pubblico composto da preadolescenti è, infatti, caratterizzato da una naturale espressività dei sentimenti aggressivi che, legandosi a una fisiologica immaturità cognitiva, produce maggiori risposte aggressive. I contenuti espressi in tv, così come videogiochi, esercitano un effetto di fascinazione nei bambini e nei preadolescenti, nel senso che si sentono coinvolti da ciò che vedono illudendosi di partecipare a uno scambio comunicativo tra loro e l’oggetto tecnologico. La televisione, in particolar modo, rappresenta la realtà esemplificando le situazioni quotidiane e trasformando ogni pensiero, problema e personaggio in situazioni connotate da un’unica dimensione affettiva: la realtà diventa quindi o tutta buona o tutta cattiva. Questo tipo di modalità cognitiva caratterizza appieno la strutturazione del pensiero infantile, che si presenta quindi essenzialmente dicotomico, pragmatico e concreto. Il rischio di tale semplificazione categoriale può portare il bambino a rielaborare le situazioni oggettive della realtà nel modo in cui vengono presentate dalla televisione, rispondendovi quindi con comportamenti inadeguati e disadattativi. I personaggi televisivi, siano essi protagonisti di finzione (telefilm e cartoni), o di prodotti improntati a mostrare aspetti oggettivi della realtà (reality, intrattenimento, informazione), sono dunque divisi in buoni e cattivi, eroi e nemici, caratterizzati però da sentimenti antisociali (violenza, odio, aggressività) più che da quelli pro sociali. Nel mondo televisivo e in quello programmato dai videogiochi, l’eroe è spesso pervaso da sentimenti antisociali che gli garantiscono, però, il rispetto e l’attenzione solitamente riservati agli eroi animati da buoni sentimenti che vincono su tutto. Il personaggio violento diventa quindi l’eroe – l’anti eroe – giustificando le azioni violente come utili e adeguate. Lo spettatore, perciò, sarà portato a interpretare come giusta l’azione violenta del suo personaggio, identificandosi in esso e imitandolo nella vita reale. Questo modo di introiettare modelli comportamentali inadeguati e disadattativi viene rinforzato dal sistema di premi e punizioni, proprio della teoria comportamentista, che alimenta il mondo tecnologico, nel caso dei videogiochi. Attraverso la ricompensa, il bambino agisce la violenza, avanzando di livello del gioco e ottenendo la vittoria della partita. Il bambino assimila il concetto di violenza perpetrandolo non solo nel contesto di finzione, ma in ogni situazione del reale. Purtroppo questo avviene anche nella fruizione dell’offerta televisiva e nella realtà quotidiana. Pertanto, i contenuti violenti (dalla scazzottata alla pornografia violenta) trasmessi in televisione, oltre che negli altri canali mediatici, possono rappresentare un pericolo sociale reale e come tale devono essere arginati.
Francesca Orlando Psicologa psicoterapeuta
www.istantv.it
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