Giulio Regeni è stato ucciso dagli apparati della sicurezza egiziana, e il presidente Abdul Fattah al-Sisi sapeva tutto. Lo scrive un informatore anonimo che nelle ultime settimane ha inviato diverse email al quotidiano la Repubblica.
L’uomo sostiene di far parte dei servizi di polizia segreta. Scrive in inglese e in arabo, intervallando qualche parola in italiano, da un indirizzo Yahoo. Dietro lo schermo dell’anonimato, lascia intendere di scrivere per conto di qualcuno che non può esporsi in prima persona, perché se lo facesse rischierebbe la vita. Testimone vero, millantatore o faida interna ai servizi di sicurezza? Di certo c’è che cita dettagli mai divulgati al pubblico sulle torture inflitte al ricercatore italiano, ma che invece sono stati riscontrati e messi a referto nella seconda autopsia, quella svolta a Roma. In ogni caso i messaggi di posta elettronica sono stati acquisiti dal pm Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta italiana, e ad Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni.
L’ordine di sequestrare il ricercatore, lo scorso 25 gennaio, sarebbe partito dal generale Khaled Shalabi, direttore del dipartimento investigativo della procura di Giza e capo della polizia criminale locale.
Regeni sarebbe stato trattenuto ventiquattr’ore nella sede del distretto di sicurezza di Giza. In quell’arco di tempo gli egiziani gli avrebbero tolto documenti e telefoni e avrebbero provato a interrogarlo, ma lui si sarebbe rifiutato di rispondere in assenza di un avvocato e di personale dell’ambasciata italiana, e avrebbe subito un primo pestaggio.
Il giorno successivo, il ministro dell’Interno Magdy Abdul Ghaffar avrebbe ordinato di persona di trasferirlo nella sede centrale della sicurezza nazionale, a Madinat Nasr. Qui si sarebbe ripetuta la stessa scena di Giza. E il capo della sicurezza, Mohammed Shaarawy, avrebbe chiesto e ottenuto indicazioni dall’Interno su come “sciogliergli la lingua”.
Dopo due giorni di torture, visto che Regeni non cedeva, l’Interno avrebbe deciso di investire della decisione il generale Ahmad Gamal al-Din, consigliere del presidente Sisi, che a sua volta avrebbe deciso di consegnarlo ai servizi segreti militari, ansiosi di “dimostrare al Presidente di essere più forti e duri della sicurezza nazionale”.
Nelle mani degli 007 Regeni sarebbe rimasto per altri giorni, alternando stati d’incoscienza a brevi intervalli in cui si sarebbe riavuto e avrebbe assicurato ai suoi aguzzini che l’Italia gliel’avrebbe fatta pagare, fino al momento in cui il suo cuore ha smesso di battere.
Allora il suo corpo sarebbe stato “messo in una cella frigorifera dell’ospedale militare di Kubri al-Qubba, sotto stretta sorveglianza”, in attesa della decisione sulla sua sorte. Che sarebbe stata presa “in una riunione tra al-Sisi, il ministro dell’Interno, i capi dei servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la Sicurezza nazionale Fayza Abu el-Naga”. Sarebbero stati loro a decidere di suggerire la pista della “rapina a sfondo omosessuale”, e quindi di abbandonare il corpo di Regeni, svestito dalla vita in giù, ai bordi della Desert Road Cairo-Alessandria dov’è stato ritrovato il 3 febbraio.
È probabile, come scrive oggi La Stampa, che il governo egiziano abbia individuato il capro espiatorio designato nel generale Shalabi, il personaggio con la reputazione peggiore in questo racconto degli orrori. Nel 2003 un tribunale di Alessandria lo aveva già condannato per aver torturato un prigioniero a morte e aver falsificato i referti di polizia sulla vicenda. Ma è tornato in servizio come se niente fosse quando la sua sentenza è stata sospesa.
Le ultime rivelazioni cambiano senza dubbio il quadro dell’incontro di domani fra gli inquirenti italiani e una delegazione egiziana. Il team del Cairo arriverà stasera a Roma e domani mattina sarà ospite del pm Colaiocco. Dall’incontro il governo italiano si aspetta un “cambio di marcia” nella cooperazione alle indagini: lo ha detto ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Riferendo al Senato, il titolare della Farnesina ha rifiutato con fermezza l’accusa di cedere alle pressioni egiziane per “ragion di Stato”. La vera ragion di Stato, ha argomentato, “ci impone di difendere fino in fondo e nei confronti di chiunque la memoria di Giulio Regeni”, ed è inaccettabile “che venga calpestata la dignità del nostro Paese”. Già nei giorni scorsi Gentiloni si era detto pronto a “reagire adottando misure immediate e proporzionate”, attirandosi le ire del ministero degli Esteri egiziano. Oggi, intanto, il ministero dello Sviluppo economico ha ritirato a Hacking Team l’autorizzazione “globale” a vendere in Egitto il suo Galileo, un sistema di controllo dei flussi di dati. Galileo è un sistema dual use, cioè utilizzabile sia per applicazioni civili sia militari, e consente a chi lo usa di sorvegliare a distanza i dati e le informazioni che passano attraverso computer e smartphone. Con l’autorizzazione globale – concessa ad aprile 2015, e che sarebbe dovuta scadere nel 2018 – Hacking Team poteva commercializzarlo senza bisogno dell’autorizzazione esplicita del governo. Ora invece dovrà tornare a chiederla di volta in volta: “alla luce di mutate situazioni politiche”, il ministero dello Sviluppo ha deciso di ritirare la licenza “con decorrenza immediata” per 46 Stati, uno dei quali, appunto, è l’Egitto. La decisione è stata presa lo scorso 31 marzo, prima che Federica Guidi si dimettesse per lo scandalo Eni.
Lo scorso luglio, Hacking Team è finita al centro di uno scandalo che ha ancora ampie zone d’ombra. L’azienda milanese si è vista pubblicare 400 gigabyte di file riservatissimi da parte di hacker sconosciuti, che erano riusciti ad accedere all’account della società su Twitter. Tra i documenti resi pubblici c’era una dettagliatissima lista di committenti che includeva governi noti per violare i diritti umani, come Sudan, Kazakhistan e Arabia Saudita.
F.M.R.
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