Solo corruzione, niente mafia. In pratica è questa la sintesi delle 3000 pagine, depositate oggi, nelle quali i giudici della X sezione penale del Tribunale di Roma hanno motivato la sentenza che il 20 luglio scorso ha assegnato una condanna a 19 anni di carcere per Salvatore Buzzi e 20 per Massimo Carminati.
“Va detto che il Tribunale non ha individuato, per i due gruppi criminali (quello costituito presso il distributore di Corso Francia e quello riguardante gli appalti pubblici ndr), alcuna mafiosità ‘derivata’ da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose”. Lo scrivono i giudici della X sezione penale che nel comminare condanne pesanti a quella che è comunque un’organizzazione capace di infiltrarsi e fare business nella gestione dei centri accoglienza per immigrati, di finanziare cene e campagne elettorali, di raggiungere politici di destra e sinistra, hanno derubricato l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 7, hanno spiegato le motivazioni che hanno condotto a 41 condanne per un totale di 250 anni di carcere (ne erano stati chiesti circa 500), nelle circa 3000 pagine che spiegano la sentenza emessa al termine del processo di primo grado al “Mondo di mezzo”. Per i giudici “le due associazioni” criminali “non sono caratterizzate neppure da mafiosità ‘autonoma’”.
I giudici scrivono che “deve quindi ribadirsi l’impossibilità di tenere conto – ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p. – di eventuali condotte qualificabili come “riserva di violenza”, condotte che possono riguardare soltanto le mafie “derivate”, le uniche in grado di beneficiare della intimidazione già praticata dalla struttura di derivazione”. “Nessuna risultanza istruttoria dimostra – continuano i giudici – però, che Buzzi ed i suoi sodali, nelle attività illecite riguardanti la pubblica amministrazione, conoscessero ed intendessero avvalersi dei metodi e dei comportamenti utilizzati dal gruppo costituitosi presso il benzinaio di Corso Francia”.
Viene così spiegata la mancata associazione mafiosa: “Ai fini del reato di cui all’art. 416 bis c.p. è necessario l’impiego del metodo mafioso e, dunque, il reato non si configura quando il risultato illecito sia conseguito con il ricorso sistematico alla corruzione, anche se inserita nel contesto di cordate politico-affaristiche ed anche ove queste si rivelino particolarmente pericolose”. Lo scrivono i giudici nelle motivazioni alla sentenza del processo Mondo di mezzo. Per i giudici il metodo mafioso si configura in presenza di “esercizio della forza dell’intimidazione”.
Nessun legame con la banda della Magliana. Anche questo è spiegato nella sentenza: “Non è possibile stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la banda della Magliana, gruppo criminale organizzato e dedito ad attività criminali particolarmente violente e redditizie che ha operato nella città di Roma, ramificandosi pesantemente sul territorio, oltre 20 anni orsono, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 90”. “Non è sufficiente l’intervento di Carminati, ‘erede della banda della Magliana’, a stabilire un rapporto di derivazione tra detta banda e successive organizzazioni in cui Carminati si trovi coinvolto. Peraltro, neppure per la banda della Magliana si è potuti giungere ad affermare che si trattasse di un’associazione di tipo mafioso”. Nelle motivazioni i giudici scrivono che “il punto di collegamento, tra i due gruppi e la banda della Magliana, è costituito dalla sola persona di Massimo Carminati, destinatario di una notevole e duratura fama mediatica, che ne ha consolidato l’immagine e gli ha creato intorno un alone di inafferrabilità: per essere sopravvissuto; per aver riportato, per quelle vicende, condanne complessivamente modeste; per essere andato assolto da alcune gravi imputazioni”. Ma gli stessi giudici sottolineano che “fama a parte, l’esistenza di un collegamento soggettivo (tra Carminati e la banda della Magliana, ndr) non significa, però, automatico ripristino o prosecuzione del gruppo precedente”.
“Nel settore degli appalti pubblici l’associazione ha avuto la capacità di inquinare durevolmente e pesantemente, con metodi corruttivi diffusi, le scelte politiche e l’azione della pubblica amministrazione”. E’ quanto scrivono i giudici nella sentenza del processo a “Mondo di mezzo”. Ciò dimostra – proseguono i giudici – la pericolosità dell’associazione nel suo complesso e anche quella dei singoli partecipi i quali, dotati di diversificate qualità professionali, le hanno fatte consapevolmente convergere verso la realizzazione dei loro propositi criminali”. Per i magistrati, in questo ambito, la figura-chiave è Salvatore Buzzi, ras delle cooperative, che grazie alla “lunga esperienza maturata nel settore della cooperazione sociale e gli stessi contatti, con politici e amministrativi, costruiti nel tempo in relazione all’attività delle cooperative, sono stati da lui sapientemente utilizzati e sfruttati per la commissione di reati finalizzati – consentendo una innaturale espansione sul mercato – a potenziare i profitti delle cooperative e dei soggetti che di esse avevano la direzione e la gestione”.
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