«Se muore il Sud non è un libro contro il Sud, non è neanche un libro sul Sud: è un libro sull’Italia».
Giusto per evitare fraintendimenti. Scritto a quattro mani dai giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (già co-autori de La casta, La deriva, Vandali e Licenziare i padreterni), Se muore il Sud (Feltrinelli, 2013) è un’attenta e puntuale disamina delle false partenze, degli appuntamenti mancati e delle molteplici storture che hanno caratterizzato, complici le esiziali convergenze tra imprenditoria e politica, le diverse tappe del processo di sviluppo del nostro Meridione. Ne parliamo con Sergio Rizzo.
Intorno agli stimoli economici riservati al Mezzogiorno si rileva una strana anomalia: da una parte l’Italia non ha investito nel suo Sud quanto ha fatto ad esempio la Germania con il suo Est, dall’altra si registra un enorme spreco di finanziamenti regionali, nazionali ed europei. Come mai?
Perché purtroppo è passata da troppi anni l’idea che il Sud si possa mantenere con le clientele, che la spesa pubblica sia l’unica cosa che può far andare avanti il Meridione. Si tratta di una falsità enorme, in quanto vuol dire negare le grandi risorse, le grandi energie che possiede il Mezzogiorno. Qui la colpa è della classe dirigente sia nazionale che locale, che ha stipulato un patto scellerato con la criminalità e le varie lobby, fra le quali quella dei medici, che in Calabria è potentissima: basti pensare che nel Consiglio Regionale della Calabria su 52 consiglieri siedono 15 medici, quota che, se rapportata alla Camera, varrebbe 182 seggi.
Quanto influisce, sul degrado del Sud, la dipendenza dei politici locali dal governo centrale, quelli che Francesco Saverio Nitti, in Napoli e la questione meridionale (1903), definiva ‘qualchecosisti’?
Molto, perché la nostra politica è fatta in modo tale che i territori non hanno più un diritto di rappresentanza ma il dovere di portare voti. I politici locali fungono fondamentalmente da serbatoi di voti, che ottengono attraverso dinamiche clientelari. Questo tuttavia succede anche al Nord, la degenerazione è nazionale.
Si rimarca nel libro come nel Sud permanga un certo patriottismo strumentale, una certa tendenza al vittimismo – presente del resto anche nel Nord, come dimostra la propaganda leghista –, tendenza fortemente criticata, fra gli altri, dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e da Salvatore Settis. Quanto questa mentalità può essere d’ostacolo ad un vero percorso riformista?
Nuoce sicuramente: è un modo comodo di scaricare le proprie responsabilità su altri, garantendo al tempo stesso i propri privilegi. Questa mentalità ha fatto breccia un po’ ovunque, ma al Sud in particolar modo proprio perché è al Sud che le clientele sono più radicate. L’elettore non guarda più ai risultati che un politico o una certa classe dirigente riescono a conseguire quanto piuttosto a quello che può ottenere in termini di piccoli favori. Se si vogliono cambiare le cose, bisogna cominciare dalla classe dirigente.
È inoltre presente anche una certa tendenza a ‘criticare chi critica il Sud’, di cui hanno fatto le spese, fra gli altri, anche Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Si tratta di miopia culturale o mera strumentalizzazione politica?
Giorgio Bocca aveva scritto un’invettiva [L’inferno, ndr.], che avrebbe dovuto imprimere una scossa o quanto meno indurre la classe meridionale a guardarsi allo specchio e avviare una seria riflessione. Questo non è avvenuto. Sono le stesse cose che stanno succedendo anche con il nostro libro. Recentemente sono stato a Bari e ho avuto la percezione di una certa diffidenza dovuta al fatto che se due giornalisti del «Corriere della Sera», che è un giornale del Nord, hanno scritto “Se muore il Sud”, allora debba trattarsi necessariamente di un libro contro. Non è così. Ci ostiniamo a ragionare in termini di Nord e Sud, ma l’Italia è una. Se il Sud sta così è perché noi continuiamo a discuterne come se fosse altro dal Paese.
La Cassa del Mezzogiorno concluse la sua attività nel 1984. Qual è il suo retaggio oggi?
La storia della Cassa del Mezzogiorno consta di due fasi. Nella prima fase si intravvedevano delle prospettive positive, perché si pose finalmente il problema di fare quello che prima di allora non era mai stato fatto, ovvero cercare di porre fine ad uno squilibrio sostanziale investendo in infrastrutture nella parte più debole del Paese. Poi è subentrata la seconda fase, quella peggiore, in cui si è passati a finanziare le famose iniziative a fondo perduto dei privati, le aree industriali, le cattedrali nel deserto che andavano ad arricchire le grandi imprese del Nord, ecc… Soldi che andavano a finire altrove, non rimanevano nel Meridione a produrre sviluppo. Il bilancio dell’attività della Cassa del Mezzogiorno non è molto positivo, in quanto è stata tradita la sua missione originaria, e questo è cominciato già negli anni Settanta.
Sappiamo bene come la mafia si sia insediata al Nord attraverso l’attività dei ‘locali’ e la collusione con diversi imprenditori, arrivando ad insidiare anche gli appalti di Expo 2015. Lei ritiene che le misure adottate finora per arginare e combattere le infiltrazioni mafiose siano sufficienti o andrebbero implementate?
Qui ci sarebbe da fare un discorso un po’ complesso: da una parte si pone un problema di ordine pubblico, che và affrontato immediatamente e concretamente, e dall’altra un problema di cultura. Abbiamo assistito troppo spesso alla consuetudine che la criminalità organizzata venisse chiamata dagli stessi imprenditori del Nord. Qui non basta la semplice repressione poliziesca, in quanto essa può fare molto ma non risolve il problema alla radice: occorre cominciare dall’educazione. Oggi queste organizzazioni hanno buon gioco perché c’è disoccupazione, perché ci sono condizioni sociali molto difficili, mentre la criminalità è l’unica a disporre di buone risorse economiche. L’economia della mafia sottrae risorse allo Stato, come dimostrano le tante truffe ai danni della Comunità Europea, il gettito fiscale sottratto attraverso l’economia nera e la concorrenza sleale, in quanto il riciclaggio di beni mafiosi diventa concorrenza sleale alle imprese. È un problema di sistema molto grave. È sicuramente necessario l’impegno della polizia e della magistratura, ma non basta: ci vuole un salto culturale importante, soltanto così si possono battere le mafie.
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