Sensuale,trasgressiva e bisessuale, pittrice del jet set internazionale e icona dell’Art Déco, Tamara de Lempicka, la regina del moderno consacrata madre dell’iconografia erotica del Novecento, si concede al pubblico di Roma con una mostra al Vittoriano che va avanti fino al 10 luglio 2011. Vengono esposti novanta dipinti e trenta disegni che ripercorrono il cammino artistico di una donna che, per la sua prorompente fisicità, l’audace voglia d’indipendenza, il rifiuto costante di ogni clichè, è stata il simbolo degli anni felici e un po’ folli tra le due guerre mondiali. La curatrice della mostra, Gioia Mori, ne parla in questi termini: “Il mondo sofisticato della moda, il bianco e nero delle fotografie di Tina Modotti, il mondo del cinema, l’ambiguità di amori saffici, l’idea moderna della donna, tutto si confonde nell’universo caleidoscopico di Tamara, in quella frenesia creativa che risponde alle sollecitazioni di una realtà nuova”. L’eclettica artista di origini polacche e dallo spirito globetrotter, divisa tra Russia, Parigi, Los Angeles, che guarda al passato di Carpaccio ed Ingres e studia il presente di Denis e Prampolini, venne ammirata da uomini del calibro di Gabriele D’Annunzio, Andy Warhol, Salvador Dalì e Jack Nicholson. Erano in molti infatti gli estimatori della sua pittura che sa unire sapientemente il costruttivismo russo, il futurismo, il cubismo e il realismo magico, senza escludere elementi del classicismo e del Rinascimento. La capacità primitiva di ingigantire le forme come idoli tagliati in una materia quasi vetrosa è un’eredità del suo maestro André Lhote, che le insegna come amplificare i volumi, rendendo il dipinto equilibrato, armonizzando gli elementi dello sfondo con l’andamento delle curve dei corpi. All’inizio della sua carriera, in fuga dalla Rivoluzione Russa, per sopravvivere vende gioielli. In quel periodo difficile i soggetti dei suoi quadri sono persone ai margini: cartomanti, donne dimesse, diseredati. Lei stessa ama dire di sè: “Vivo la vita ai margini della società, e le regole della società normale non si applicano a coloro che vivono ai margini”. Dal 1922 con l’ingresso al Salons di Parigi inizia la vita trasgressiva fatta di eccessi: il giorno dipinge ascoltando a tutto volume Wagner e la sera frequenta locali, bordelli, facendo un uso smodato di cocaina. Tre figure femminili ritrae in particolare: la figlia Kizette, Rafaëla, una prostituta dagli occhi neri e dal corpo monumentale di cui si era invaghita ed Ira Perrot, con cui inizia una relazione durata poi dieci anni. Nel 1929 arriva a New York, affascinata dai grattacieli, transatlantici, telefoni. Ne furono rapiti anche Cocteau e Fritz Lang, regista di “Metropolis”, film che ben interpreta quel sentimento di sublime che la tecnologia conferiva all’uomo. I corpi diventano lisci e metallici, le donne dalla manieristica forma serpentinata sono avvolte in sciarpe svolazzanti, tutto è freddo e lucido come l’acciaio. Il Blu squillante, ribattezzato come blu Lempicka ed il grigio, che domina anche la sua casa, diventano i colori principali. In un articolo del 1929 sul Corriere Adriatico di Ancona venne definita infatti come “la pittrice della poesia violenta del grigio”. Dopo il 1929, con la crisi economica, i suoi quadri risultano sgradevoli perché troppo opulenti ed euforici. Entra in depressione, divorzia e si risposa, inizia a dipingere non più donne provocanti, bensì madonne e santi, ma tutto è ormai cambiato. Il successo dei favolosi anni ’20 ormai non tornerà più. In questa esposizione Gioia Mori propone una nuova lettura dei suoi quadri. Vi sono documenti di un legame finora sconosciuto con Prampolini, diverse opere mai esposte in Italia, tra le quali l’eccezionale prestito di cinque dipinti della collezione di Jack Nicholson, cinquanta fotografie in parte inedite (come tutta la sequenza con Dalì), due film degli anni Trenta, un eccezionale ritrovamento, un importante dipinto del 1923, “Portrait de Madame P.”, finora considerato perduto, noto solo attraverso un’antica foto in bianco e nero. La mostra svela anche un suo lato impegnato, come quando ad Hollywood raccolse fondi per la Polonia invasa. Tamara Gorska, in arte De Lempicka dal cognome del primo marito Lempicki, nata a Varsavia nel 1898 e morta in Messico nel 1980, ha incarnato la spregiudicata irriverenza di un’epoca di conquiste artistiche ed intellettuali per le donne, risultando da un lato un’icona, un’algida “dea dagli occhi d’acciaio”, una diva irraggiungibile al pari di Greta Garbo, dall’altro una donna carnale, passionale, combattiva, che ha sempre messo al primo posto la libertà di vivere fino in fondo e senza inutili freni censori la propria femminilità d’avanguardia.
Erika Eramo
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