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Appresi del rapimento di Aldo Moro e del massacro della sua scorta verso le 9,40 del mattino ascoltando la radio. All’epoca abitavo al Villaggio Olimpico, sotto la Camilluccia, non molto lontano da via Fani dove le Brigate Rosse avevano teso l’agguato allo statista Dc e alla sua scorta. Insieme a mio fratello decidemmo di andare sul posto. Arrivammo insieme alla troupe della Rai guidata da Paolo Fraiese che aveva appena iniziato a fare le riprese per una edizione straordinaria del telegiornale. Tranne Moro, portato via da Mario Moretti su una macchina del commando brigatista, tutti gli altri erano lì, morti ammazzati, crivellati da colpi di mitra e di pistola. L’unico della scorta che era riuscito ad uscire dall’alfetta di servizio e sparare due colpi era stato l’appuntato Iozzino. Giaceva supino vicino all’Alfa bianca con la pistola d’ordinanza poco distante dalla mano.
Anche per lui come per tutti gli altri, mani pietose avevano steso un telo bianco che presto sarebbe diventato rosso. Rosso di sangue. Il caposcorta Leonardi colpito sul sedile anteriore dell’auto dove viaggiava il presidente della Democrazia Cristiana, stava riverso di fianco verso il collega autista centrato al collo e alla testa da diversi proiettili. Da sotto il lenzuolo pendeva il braccio sinistro e si vedeva, impregnato di sangue, l’orologio con il cinturino d’acciaio dell’angelo custode che stavolta non ce l’aveva fatta a proteggere il suo Presidente. Era morto senza, con ogni probabilità, rendersi nemmeno conto di quello che stava succedendo.
Fin qui i ricordi personali di quell’agguato di quarant’anni fa quando in Italia un partito armato denominato Brigate Rosse, aveva deciso di portare l’attacco al cuore dello Stato. Il cuore di quello Stato e di quelle istituzioni che le Br intendevano distruggere cercando una legittimazione politica che non sarebbe mai venuta. Cinquantacinque giorni dopo via Fani anche Moro sarebbe stato ucciso chiudendo così una tragedia che con la fine dello statista avrebbe sancito comunque l’inizio della fine delle Brigate Rosse e del terrorismo in Italia.
Le occasioni per celebrare ed onorare i servitori dello stato che persero la vita in quella stagione di sangue riapre sempre puntualmente le polemiche non tanto sui fatti ma sulle complicità e sulle coperture insospettabilidi cui per più di un decennio avrebbero goduto i brigatisti. Polemiche che anche recentemente, dopo quattro processi e le conclusioni di una commissione d’inchiesta parlamentare, ha convinto molti a sollecitare nuove indagini per fare luce su tutto e in particolare sulle zone d’ombra relative all’agguato e alla prigionia di Moro. Molti ex militanti e soldati delle Br, capi, gregari o semplici simpatizzanti hanno raccontato le loro verità. Ma quelle alla fine della giostra si sono rivelate verità parziali. Ancora oggi non si sa da quanti uomini era composto il commando di via Fani, chi sparò e chi invece fece solo da palo o da autista. Per non parlare della gestione del prigioniero e degli interrogatori cui lo sottoposero in quei 55 giorni di agonia che precedettero la sua esecuzione. Dove, a chi e quando furono consegnate le lettere. Non si sa ancora quante effettivamente furono quelle lettere. Per non parlare poi dei “ritrovamenti” pilotati e delle rivelazioni e dei depistaggi durante il sequestro. Molti dei brigatisti cui fu affidata la regia e l’esecuzione del colpo di mano di via Fani hanno mentito e continuano a mentire. A cominciare dal capo Mario Moretti, Valerio Morucci e Barbara Balzarani. Altri come Prospero Gallinari i segreti se li sono portati nella tomba.
Ma è proprio su queste zone d’ombra che ad ogni ricorrenza si scatenano le polemiche che stavolta però, grazie al capo della polizia Franco Gabrielli, fanno un salto di qualità non indifferente. Ed il superpoliziotto inizia proprio dal lessico per lamentare un approccio da parte soprattutto di chi fa comunicazione, ovvero da giornali e giornalisti che, allora ma anche oggi parlano e di “dirigenti, esponenti o militanti delle brigate rosse” quando, dice con veemenza il capo della polizia, bisognerebbe parlare “di criminali, assassini” . Come dire che oggi resiste, ancora come ai tempi del terrorismo, una complicità lessicale che probabilmente va anche nella direzione di simpatie da parte di qualcuno verso quella stagione di sangue e lutti. Riconoscere ai brigatisti rossi uno status di rivoluzionari, di combattenti, non fa giustizia alla verità.
“Oggi riproporli in asettici studi televisivi come se stessero discettando della verità rivelata credo sia un oltraggio per tutti noi e soprattutto per chi ha dato la vita per questo Paese”.
Il capo della Polizia Gabrielli, parlando dei brigatisti coinvolti nel sequestro Moro durante l’inaugurazione del giardino martiri di via Fani ha fatto riferimento a “una sorta di perverso ribaltamento” in cui “si confondono ruoli e posizioni. Dobbiamo ricordare chi stava da una parte e chi dall’altra”.
“Il rispetto della memoria è anche dire parole chiare – ha sottolineato Gabrielli nel suo discorso pubblico -. In via Fani c’erano 6 uomini dalla parte delle istituzioni, cinque sono morti subito e uno dopo 55 giorni, e un commando di brigatisti, terroristi e criminali. Scrivere ‘dirigenti della colonna delle brigate rosse’ è un pugno allo stomaco. Non so se sia stato scritto mai di Riina dirigente di Cosa Nostra. La parola ‘dirigente’ nobilita, sarebbe stato più giusto dire criminale e terrorista”.
Quelle 5 persone molto probabilmente erano degli eroi per caso. Non lo avrebbero voluto, anche se erano consapevoli di scortare un uomo che in quel momento aveva su di sé il peso di una minaccia brigatista. Queste sono le persone e le storie da cui ripartire.
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