Non è una bella festa questo 1 maggio che dalla fine dell’800 commemora la conquista americana delle otto ore giornaliere di lavoro. Una lotta che costò manifestazioni e scioperi, lacrime e sangue prima che il riconoscimento partito dall’Illinois fosse esteso agli altri Stati Uniti e successivamente arrivasse in Europa e quindi in Italia.
Quest’anno la Festa del Lavoro viene celebrata mentre già si conoscono le stime preliminari dell’impatto del COVID-19 sul mondo della produzione, gli effetti a livello mondiale che spingeranno milioni di persone alla disoccupazione, sottoccupazione e povertà lavorativa. L’effetto del Coronavirus sull’economia sarà possibile quantificarlo solo molto dopo la fine di questo periodo di lockdowm, ma l’unica certezza è che la crisi scatenata dalla pandemia e dalle sue restrizioni farà bruciare milioni di posti di lavoro in tutta Europa. Secondo gli analisti della Goldman Sachs il tasso di disoccupazione nell’eurozona potrebbe salire all’11% entro la metà dell’anno con balzi particolarmente vistosi in Italia, dove la percentuale dei senza lavoro potrebbe arrivare al 17% e dove si stima che 500 mila non apriranno dopo il 4 maggio.
Cosa dobbiamo fare. La ricetta di Gianni Alemanno, ex ministro delle Politiche agricole e forestali nel secondo quinquennio berlusconiano, al quale va riconosciuto il merito di avere portato avanti con successo nell’Unione europea battaglie estenuanti a favore delle imprese e i lavoratori italiani delleindustrie del tabacco e dello zucchero, è di “salvare il lavoro e le imprese dalla Globalizzazione”.
Sul quotidiano on line Qelsi.it scrive:
“Il lavoro – anche prima del Covid-19 – manca sempre di più, si precarizza, viene incredibilmente sfruttato. Ogni anno che passa i diritti fondamentali dei lavoratori vengono erosi da legislazioni sempre più liberiste e spregiudicate, ma la responsabilità di tutto questo viene al massimo attribuita allo sviluppo delle tecnologie e all’avidità di imprenditori senza scrupoli. Ma queste in realtà sono solo cause marginali e derivate.
Il vero problema è la Globalizzazione dei mercati, dei capitali e della manodopera, una globalizzazione senza freni che non è una naturale evoluzione della Storia, ma una precisa scelta politica da parte di chi vuole massimizzare i profitti della finanza internazionale e delle multinazionali e nel contempo vuole distruggere le appartenenze e le identità dei popoli.
Grazie a questa Globalizzazione le multinazionali e la finanza internazionale possono delocalizzare le unità produttive nei paesi dove il lavoro costa di meno e può essere più facilmente sfruttato, facendo una concorrenza mortale a tutte le imprese che rimangono radicate nel territorio e per questo producono a costi sempre meno competitivi. Tutto questo è evidente a chiunque, ma – per paura di dare spazio al Sovranismo – nessuno, tra i sindacalisti che dovrebbero difendere i lavoratori e i rappresentanti di quella che dovrebbe essere una Repubblica fondata sul Lavoro, ha il coraggio e l’onestà di dirlo.
Assistiamo anche all’esaltazione del lavoro che viene fatto dagli immigrati, sentendo ripetere la solita menzogna che questo lavoro è indispensabile per pagare le nostre pensioni, ma nessuno degli uomini del Palazzo sembra comprendere che questi immigrati sono solo un “esercito industriale di riserva” (come diceva Carlo Marx) utile a svalutare e sfruttare meglio il lavoro del nostro Popolo.
I più estremisti nel coro, ancora tinto di rosso, dei sindacati e di ciò che rimane della sinistra sociale se la prenderanno genericamente con le imprese e con gli imprenditori, dimenticando che la Globalizzazione ha spostato i confini del conflitto sociale ed economico. Se due secoli fa poteva dividere i lavoratori dagli imprenditori, oggi questo conflitto unisce lavoratori e veri imprenditori contro l’aggressione delle multinazionali e dell’economia finanziaria. L’impresa è una cellula creativa e potenzialmente comunitaria che genera il lavoro, per questo la destra sociale si è sempre battuta per la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.
Invece le multinazionali non sono imprese, sono solo gigantesche tecnostrutture che divorano le piccole e medie imprese e con esse la dignità del lavoro. Non c’è nulla di creativo nelle multinazionali, sono solo il braccio armato con cui la finanza internazionale domina l’economia reale.
Ma proprio la crisi creata dal Coronavirus sta stracciando gli ultimi veli che nascondono queste realtà. E di fronte al nostro popolo c’è un’alternativa chiara: o piegare la testa di fronte al potere dell’Unione Europea e delle forze globaliste e farsi ridurre alla fame, oppure costruire un nuovo “Fronte del lavoro e delle imprese” in grado di sconfiggere questi nemici.
Tre sono i pilastri di questo nuovo blocco sociale e istituzionale: uno Stato sovrano – promanazione dello Stato nazionale del Lavoro di Giovanni Gentile e della Repubblica fondata sul Lavoro della nostra Costituzione -, le piccole e medie imprese del nostro meraviglioso made in Italy e il mondo del lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni.
Chi ancora oggi continua a dividere e contrapporre questi tre potenziali alleati è un nemico della dignità e del benessere del Popolo italiano. Chi – in nome dell’ammuffita “rivoluzione liberale” – contrappone le imprese allo Stato, non fa altro che consegnare le vere imprese al massacro delle multinazionali. Chi – in nome di un vecchio sindacalismo classista – contrappone ancora i lavoratori alle nostre imprese nazionali, prepara i disoccupati e i precari di domani. Chi ancora oggi contrappone i dipendenti privati ai dipendenti pubblici, le partite IVA al lavoro subordinato, i dipendenti stabili ai precari e ai lavoratori in nero, divide il mondo del lavoro in una sporca guerra tra poveri”.
Non più dunque decreti per fornire un assistenzialismo che non cura e neanche soddisfa le necessità dei lavoratori e delle loro famiglie, ma creare una consapevolezza e condizione di battaglia comune delle imprese che unisca i dipendenti e gli imprenditori, nella constatazione inconfutabile di trovarsi, per richiamare Papa Francesco, sulla stessa barca. Se questa affonda, l’equipaggio va a picco con tutto il capitano.
Questa è la vera opportunità data dalla crisi: l’acquisizione di una considerazione nuova e diversa riguardo al rapporto tra soggetti coinvolti nel lavoro e, tra questi, il mondo esterno.
A.B.
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