Cosa costringe, ormai da settimane, migliaia di Italiani a fare la fila davanti alle agenzie di prestito su pegno? E’ un male più subdolo del Covid 19, è stato alimentato dalla farraginosa burocrazia nostrana, ma era già presente prima dell’inizio di questa pandemia, complice un’economia che dalla crisi del 2008 non è mai davvero ripartita: è la mancanza di liquidità.
Ogni anno in Italia il servizio viene utilizzato in media da 124 mila persone generando un giro d’affari di circa 800 milioni di affidamenti, ma nell’ultimo mese le cifre sono drasticamente aumentate.
A fare la fila ci sono tutti quegli italiani in attesa di ricevere il bonus o ritrovatisi esclusi dalle politiche di sostegno al reddito – disoccupati, anziani – che hanno deciso di affidarsi ad uno strumento antico ed efficace: il monte dei pegni. Così, già da inizio aprile le code fuori dagli istituti hanno iniziato a gonfiarsi, creando talvolta anche problemi per il mancato rispetto delle distanze di sicurezza, come è successo a Torino. Stando a quanto dichiarato in un’intervista del TG1 dal direttore Credito su pegno della banca Carige, Giovanni Tomatis, l’incremento relativamente al suo istituto è stato del 30-50%. A presentarsi soprattutto nuovi clienti che non avevano mai fatto ricorso a questa pratica che, in 15 minuti, evita la burocrazia e non domanda di debiti pregressi e insolvenze, ma consente di ritrovarsi in tasca piccole somme, in media circa 1000 euro, in cambio del deposito di oggetti personali di valore. I tassi di interesse raggiungono fino al 15% e la somma va restituita dopo 3 o 6 mesi.
Visto però il prolungarsi del periodo di crisi e la sua indeterminatezza, Affide, la più grande società attiva nel settore del credito su stima che ha sede a Roma e filiali sparse in tutto il Paese ed è riconosciuta dalla Banca d’Italia, ha deciso di andare incontro alle esigenze dei suoi clienti stabilendo la sospensione delle aste di tutte le polizze scadute e non rinnovate comprese tra inizio gennaio 2020 e la fine di aprile 2020. Infatti, una volta scaduta la polizza sottoscritta, il cliente ha davanti a sé tre opzioni: il rinnovo del contratto, che significa prolungare il prestito, riscattare il proprio bene o mandarlo all’asta. Affide ha quindi ritenuto utile “dare a tutti il tempo per decidere e valutare con più calma la scelta da fare”. I beni sono conservati in un deposito e assicurati, e le persone che vogliono impegnare un bene possono riscattarlo in qualunque momento.
Se le stime presentate ieri dal Centro Studi di Confindustria vengono confermate, con una perdita del sistema industriale tra aprile e marzo del 50% e un’ipotetica caduta del PIL nel secondo trimestre di 8 punti percentuali, saranno sempre più i cittadini a dover fare ricorso alle agenzie di pegno.
Secondo Confindustria non c’è più da perdere tempo ed è opportuno che i sostegni a famiglie e imprese arrivino per tempo e in quantità adeguata, altrimenti “il rischio è che i livelli di ricchezza tornino indietro di quarant’anni”.
Questa pandemia sembrava aver stretto tutti gli italiani in un unico grande abbraccio: moltissimi fermi, l’economia paralizzata, lo stato pronto ad aiutare tutti in egual misura. Invece non è andata proprio così.
Se infatti i dipendenti pubblici non hanno mai visto minacciato né il proprio posto di lavoro né il proprio stipendio, per 11,5 milioni di lavoratori è stato necessario rivolgersi agli aiuti statali, ed è qui che è iniziata la vera crisi.
Nonostante gli impegni presi dal Governo per evitare discriminazioni, a scavare un fossato tra le varie tipologie di lavoratori ci ha pensato la burocrazia.
Dei 4,2 milioni di autonomi che hanno chiesto all’INPS il bonus da 600 euro in 500mila sono in lista di attesa perché è stato superato il limite di spesa del decreto ‘Cura Italia’ del 17 marzo. Gli autonomi non iscritti all’Inps, ma alle Casse privatizzate degli ordini professionali, affrontano un problema simile: in 455 mila hanno chiesto i 600 euro, ma i soldi (200 milioni) bastano per 333 mila.
La situazione più drammatica la affrontano quanti sono in attesa della cassa integrazione in deroga. Se quella ordinaria che riguarda 248mila imprese e 5,1 milioni di lavoratori sembra aver funzionato, è quella in deroga dove il meccanismo si è inceppato. E a risentirne sono 1 milione di lavoratori e 336mila imprese.
Il problema principale risiede proprio nei numerosi passaggi burocratici necessari per ottenerne il riconoscimento che va prima approvato dalla regione e poi dall’Inps.
In Piemonte, a fine aprile, delle 28 mila domande di cassa in deroga, presentate da altrettanti imprenditori, solo 4 mila erano già complete. Per le altre i funzionari erano in contatto con le aziende per recuperare la documentazione necessaria. Nei primi venti giorni di aprile, cioè dall’uscita del decreto, solo per 600 pratiche si era chiusa l’istruttoria e le domande erano state inoltrate all’Inps; per altre 800 si stava procedendo speditamente; ma il resto era in fase di lavorazione. Risultato? Nonostante lo Stato avesse promesso di soddisfare le richieste di tutti entro la metà del mese di aprile, secondo il dato riportato dall’Associazione consulenti del lavoro in molti vedranno gli aiuti arrivare solo a fine maggio inoltrato. Secondo la Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone
“i pagamenti della cassa integrazione in deroga, che coprono i dipendenti delle aziende più piccole, tarderanno ad arrivare perché le tempistiche delle 21 regioni non sono adatte a quelle dei lavoratori: oltre 3 milioni di persone dovranno continuare a pazientare fino a fine maggio in attesa che le pratiche vengano esaminate, autorizzate e poi liquidate dall’Inps”.
Ma che fine ha fatto l’accordo stipulato tra INPS e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI)? Con questo strumento si prevedeva di compensare i tempi già normalmente lunghi (circa due mesi e mezzo) dell’INPS per liquidare la Cig offrendo la possibilità di ricevere un anticipo di 1400 euro erogato dalle banche. Nonostante sembrasse alto il numero degli Istituti aderenti, le cose non sono poi andate per il verso giusto: l’accordo è stato infatti bloccato dalla mancata operatività da parte degli istituti stessi. Già dopo dieci giorni dalla sottoscrizione dell’accordo, il ritardo nell’organizzazione del sistema bancario si aggiungeva alle numerose criticità implicite nella formula burocratica individuata per l’anticipo. La situazione appariva drammatica già in un’indagine condotta tra l’8 e il 9 aprile dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro presso 4.463 studi di consulenza e professionisti. Solo il 17% degli interpellati affermava che il sistema bancario era pronto; in ritardo non erano solo gli istituti di credito più piccoli, ma anche i grandi gruppi. In più, ancora una volta, a remare contro i lavoratori l’eccessiva burocratizzazione, con la richiesta da parte delle banche di moduli come l’SR41 che viene rilasciato dall’INPS praticamente a pratica già evasa, “rendendo a quel punto l’anticipo non più necessario” come afferma il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra.
In queste ore si lavora per il decreto maggio, che arriverà evidentemente già in ritardo. La speranza di sindacati, aziende e lavoratori è che almeno si riescano ad evitare gli errori e a sciogliere le complicazioni burocratiche dell’ultimo mese.
Elisa Rocca
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