“State a casa voi, che a lavorare ci pensiamo noi”. E’ questa la parola d’ordine che le quasi 100 mila imprese della provincia di Bergamo, la “Wuhan d’Italia”, hanno fatto filtrare nelle ultime settimane raccogliendo la sfida di un virus che continua a generare contagio e morte come in nessun altra area del Paese.
Stiamo parlando di una realtà molto complessa: nel solo bergamasco sono 10.500 le imprese manifatturiere, mentre quelle metallurgiche rappresentano il 35,5% del totale produttivo, seguite dalla meccanica 17,8% e della plastica 8,9%. Un mondo che con l’indotto mette in piedi 35 miliardi di fatturato, pari al 9.5% di tutta la produzione della Lombardia e del 2% di tutta l’Italia.
Gli stabilimenti, che danno lavoro a 500 mila persone non si sono fermate in questi momenti di tragedia. Anzi spesso hanno trovato la forza di trasformarsi e riciclarsi per far fronte meglio alla crisi.
E’ il caso della Tecnofilati di Medolago, che nei giorni scorsi ha lanciato la produzione dei primi diecimila pezzi di mascherine rigorosamente made in Italy, trasformando la produzione da eccellenti filati per la maglieria, in mascherine più commercializzabili in questo tempo di coronavirus.
C’è anche chi ai propri dipendenti vuole proprio “bene”, è il caso del magnate della Brembo, Alberto Bombassei, che ha deciso la chiusura di tutti gli stabilimenti a Stezzano, Curno, Mapello e Sellero dal 16 marzo a 22 marzo. Una sola settimana di “tregua” per i 3000 dipendenti: un omaggio in nome della sicurezza e la salute dei lavoratori.
Un altro stabilimento per la produzione di uova aperto no stop è La Cascina Italia di Spirano, provincia di Bergamo, che continua a rifornire i supermercati di mezza Italia, nonostante sia collocata nel cuore della pandemia con numeri di contagio superiore alle 1425 persone.
Eppure le regole di contenimento finalizzate alla lotta contro la pandemia non lasciano fuori il mondo dell’industria ed oggi si può dire che sono state attivate in tutta la Lombardia. Lo conferma la Confindustria,che precisa anche come tutto sia avvenuto nell’ambito di una riorganizzazione del lavoro secondo criteri che non comprometterebbero l’attività produttiva.
Il lavoro dei dipendenti ora è articolato su tre turni, con tanto di mascherine, guanti e occhiali protettivi per tutti. Contromisure anche rigide, che comunque mantengono attiva la produzione.
Aperta anche la Technoprobe produttore di elettronica con 600 dipendenti. Al lavoro anche le Rubinetterie Bresciane, La Pama, produttore di macchine utensili, la Elmec che non ha chiuso nessun stabilimento mantenendo attivi 500 dipendenti in grado di coprire tutti i turni a ritmi estenuanti.
Ma se il lavoro nelle fabbriche e negli uffici continua, il Covid 19 non si ferma e produce contagio e morte. E per quel che ci riguarda il conto della tragedia sta assumendo proporzioni e situazioni inimmaginabili solo qualche settimana addietro.
La conferma viene dalle tristi e disumane immagini delle bare di Bergamo, trasportate in piena notte su mezzi militari, per essere cremate in altri Comuni. Immagini di tragica emergenza. Scatti di guerra che impongono una domanda:
Non è forse giunto il momento il di fermare la macchina produttiva per salvare vite umane? Possiamo congelare la produzione per qualche settimana o mese, con buona pace del Pil nazionale, dei conti pubblici della Bce, dello spread e di tutto ciò cui ci siamo legati in maniera parossistica negli ultimi decenni, ubriacati da ricchezza e utili aziendali? Si possono tenere in quarantena 60 milioni di italiani e al tempo stesso l’economia in un regime di semilibertà, necessaria quanto pericolosa?
Per una risposta esaustiva dovremo attendere ancora qualche settimana. Dobbiamo capire quanto sia ancora forte ed imbattibile il coronavirus. Solo allora con coraggio leonino e soppesando bene le conseguenze di tutto questo potremo decidere se abbassare o meno tutte le saracinesche di un’Italia che comunque non intende rimanere bloccata e schiacciata dalla paura.
Barbara Ruggiero
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