Rosso, il colore della terra istriano-dalmata che fu occupata dalle truppe di Tito durante la seconda Guerra Mondiale. Una parte di questa terra ricca di bauxite, minerale che le conferisce questo colore caratteristico, a guerra finita, fu assegnata alla Jugoslavia. Motivo per il quale migliaia di italiani che l’abitavano furono costretti a lasciare tutto ciò che possedevano e migrare.
Rosso del sangue che cominciò a scorrere a fiumi, a guerra finita, per la spietatezza dei comunisti titini e dei partigiani nostrani che infierirono con una crudeltà senza pari sugli esuli in fuga. Un’operazione di ‘pulizia’ che costò la vita a 20.000 persone tra infoibati, annegati, massacrati e mai ritornati, prodromica a quella del grande esodo di 350.000 italiani.
Rosso come la vergogna di avere tenuto nascosta una dolorosa pagina della nostra storia “per superficialità o per calcolo”, come ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, oggi, nella Giornata del Ricordo.
Nel 1943, dopo tre anni di guerra, il regime di Mussolini aveva decretato il proprio fallimento sciolto il Partito fascista e proclamato la resa. La prima ondata di violenza esplose proprio dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell’intervallo tra le due guerre, avevano amministrato Slovenia e Croazia con durezza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali. I fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe.
La rabbia degli uomini di Tito si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari della Russia del periodo 1917-1919.
“10 febbraio. Una fredda e cupa giornata del 1947 decretò la fine dell’Istria, come scrisse allora il “Grido”, il foglio clandestino che alimentava la resistenza agli invasori jugoslavi. Il diktat di pace ci strappò Pola, Fiume, Zara, Cherso e Lussino, e confinò Trieste in un assurdo “territorio libero” amministrato dagli angloamericani. Ci vollero la rivolta ed il sacrificio dei ragazzi di Trieste del novembre 1953 perché la città tornasse all’Italia un anno dopo, a nove anni dalla fine della guerra…
Il 10 febbraio ’47 ha segnato dunque un grande lutto nazionale, una cesura della nostra storia ed una violenza alla nostra geografia. Ormai non c’è quasi più nessuno tra quelli che subirono, 75 anni or sono, la violenza cieca delle foibe, col loro carico di morti senza croce; e pochi ormai sono anche quelli che negli anni seguenti dettero vita a quel grande esodo che fu un plebiscito dì italianità e libertà.
Esuli che si sparsero in 117 campi profughi in Italia, da Trieste a Termini Imerese, da Altamura a Laterina, e finirono poi magari nelle lontane Americhe o nella ancor più lontana Australia. Oggi tocca ai loro figli, e io sono uno di questi, conservare quel che loro è stato donato, ridare agli italiani, tutti gli italiani, la memoria di quella tragedia incompresa, ricucire i fili strappati della storia.
Convenienze politiche di ordine interno e internazionale indussero a cancellare dalla coscienza e dalla conoscenza degli italiani questa grande tragedia nazionale, che non poteva restare una sorta di memoria privata confinata lassù alla frontiera orientale e nelle nostre famiglie. Oggi, ed il Giorno del Ricordo ne è la testimonianza, l’Italia si riconcilia e riconosce nella sua compiutezza il valore della grande prova che i giuliani dalmati seppero offrire. E’ la vittoria della civiltà, della pietà e della verità. Anche se qualcuno, sbandato dalla storia si ostina ancora a giustificare o negare. Rosso come la vergogna che non conosce”. (Roberto Menia)
Due anni fa è stato realizzato da Rai cinema col sostegno della Regione Veneto il film “Red Land”. Splendido in tutta la sua crudeltà, è dedicato alla storia di una ragazza istriana, Norma Cossetto, che fu violentata, massacrata e gettata nelle foibe dai partigiani comunisti di Tito, sostenuti dai partigiani comunisti nostrani, solo perché era la figlia del segretario politico del fascio locale. Norma era una studentessa, laureanda a Padova con una tesi dal titolo Istria rossa, rossa come la terra istriana, ricca di bauxite. Quella tesi, e quella terra rossa diventa la metafora che dà il titolo al film ed evoca il sangue versato sulla terra istriana e il colore dell’ideologia che condusse allo sterminio. Il corpo di Norma fu ritrovato dai pompieri nel ’43: era quasi seduta nella fossa carsica, con gli occhi che cercavano la luce all’imbocco della foiba. Una storia terribile in cui il Male appare quasi assoluto, diabolico, più che bestiale.
Perché si è parlato pubblicamente solo molto tardi delle foibe – la Giornata del Ricordo è stata istituita dal governo Berlusconi nel 2004, quasi 60 anni dopo la fine della guerra – e perché è ancora così difficile parlare di foibe nelle scuole e nei media? Perché evoca il capitolo più infame del Novecento, il comunismo e i suoi orrori, che si spargono lungo settant’anni, tre continenti, centinaia di milioni di vittime e di oppressi. Una catastrofe che non ha paragoni. Nemmeno con l’Olocausto, il genocidio di cui fu responsabile la Germania di Hitler.
Il Presidente Mattarella è intervenuto oggi, in occasione della Giornata del Ricordo delle vittime delle Foibe, definendole “una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo” e rilevando che “esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante”. Un negazionismo che ha duplice nutrimento, da una parte la malafede di chi si ostina, per motivi ideologici, a non voler riconoscere ciò che è accaduto. Dall’altra, indifferenza, disinteresse e noncuranza, figlie anche della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi.
A.B.
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