Assolto in primo grado, Ignazio Marino ex sindaco di Roma Capitale, è stato condannato in appello a due anni di reclusione per falso e peculato. La contestazione si basava su 50 pasti offerti a parenti e amici ma pagati con la carta di credito del Comune. Per un totale di circa 13 mila euro. Soldi che adesso dovrà risarcire, fino all’ultimo centesimo, colui che una vota eletto si permise anche altri privilegi. Come quello di non pagare le multe della sua famosa Panda rossa, parcheggiata davanti al Senato, nell’area riservata agli eletti (dovette dimettersi da senatore durante la campagna per il posto di sindaco, su pressione dell’antagonista Alemanno), che accedeva alla zona Ztl senza averne diritto.
La storia, che con il secondo grado di giudizio gli costerà 2 anni di reclusione, inizia dalla richiesta di accesso agli atti della Ragioneria generale del Comune, avanzata nel settembre 2015 dal MoVimento Cinque Stelle, per verificare i tracciati delle spese effettuate dall’allora sindaco di Roma con la carta in dotazione per finalità ben diverse da quelle personali. E’ il quotidiano romano Il Tempo ad accorgersi però delle prime incongruenze tra quello che dichiarò allora Marino, a propria giustificazione, e cosa invece si poteva leggere sugli scontrini. Un solo esempio: il pranzo del 26 dicembre, festività post-natalizia, consumato dal sindaco più altri 4 o 5 che sarebbero appartenuti, secondo quanto da lui dichiarato, alla delegazione vietnamita in visita a Roma (sic!).
L’era Marino è durata 28 mesi soltanto. Poco più di due anni, durante i quali il sindaco dem ha dato prova di grande abilità nel non essere mai al suo posto nel momento un cui la città lo richiedeva. Ha fatto più viaggi in America lui che il manager italiano di una società USA. L’ultimo, il più eclatante, è stato quello a Filadelfia, invitato a suo dire da sindaco, vescovo, papa Francesco e chi più ne ha ne metta. Smentito, invece, proprio dal Pontefice, in viaggio apostolico per l’incontro mondiale delle Famiglie, che si sentì in dovere di precisare ai giornalisti: «Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori e neanche loro lo hanno invitato».
Fu quello l’ultimo atto del chirurgo trapiantologo ceduto alla politica di sinistra ed eletto nel giugno 2013, quando i romani scelsero di non rinnovare la fiducia all’uscente Gianni Alemanno. Poche settimane dopo il “marziano” come l’avevano definito, il cui mandato era iniziato con il progetto di pedonalizzare i Fori imperiali, fu costretto, suo malgrado, a rassegnare le dimissioni e consegnare la Capitale nelle mani del commissario Tronca.
La condanna per falso (ha rinnegato le firme sulle ricevute) e peculato (ha speso i soldi dei cittadini romani), è per Ignazio Marino una sentenza dal sapore politico: “La Corte di Appello di Roma oggi condanna l’intera attività di rappresentanza del Sindaco della Città Eterna. In pratica i giudici sostengono che in 28 mesi di attività, il Sindaco non abbia mai organizzato cene di rappresentanza ma solo incontri privati. Un dato che contrasta con la più ovvia realtà e la logica più elementare. Non posso non pensare che si tratti di una sentenza dal sapore politico proprio nel momento in cui si avvicinano due importanti scadenze elettorali per il Paese e per la Regione Lazio”. Così l’ex sindaco ha commentato la sentenza dei giudici della terza sezione della Corte d’Appello di Roma sul ‘caso scontrini’. “Sono amareggiato anche se tranquillo con la mia coscienza perché so di non aver mai speso un euro pubblico per fini privati – ha aggiunto – Con lo Studio Musco (il suo avvocato difensore, ndr) continuerò la mia battaglia per la verità e la giustizia in Cassazione”.
A.B.
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