Matteo Renzi, presidente del Consiglio, Pietro Grasso, presidente del Senato, Giovanni Malagò, presidente del Coni, Giancarlo Abete, presidente della Figc, Maurizio Beretta, presidente della Lega di Serie A, Aurelio De Laurentiis, presidente del SSC Napoli, Diego ed Andrea Della Valle, presidente onorario della Fiorentina, Mario Pescante, ex presidente del Coni e tutt’ora membro del Cio. Oltre ad una miriade di vip più o meno noti.
Tutti presenti. Tutti attoniti. Tutti impotenti. Quasi l’istantanea di uno Stato tutto che altro non può fare che aspettare che a decidere sia lui: Genny ‘a carogna. Al secolo Gennaro De Tommaso, leader dell’intera tifoseria organizzata della curva A del Napoli. Secondo fonti investigative citate dall’Ansa, sarebbe figlio di Ciro De Tommaso, affiliato al clan camorristico dei Misso. Con indosso una maglia nera che recita sul dorso: “Ultras liberi”. Sul petto: “Speziale libero”. Per chi non lo sapesse, Antonino Speziale è il boia di Filippo Raciti.
Sissignori, avete capito bene. Le Istituzioni, non solo sportive, ma tutte, dalle più alte cariche all’ultimo degli agenti ad attendere di sapere da un personaggio di tal fatta se la finale della Coppa Italia 2014 avrebbe potuto avere luogo.
Uno Stato ostaggio di una curva. Che, poi, il capo ultrà sia effettivamente (come sembrerebbe) imparentato con un camorrista sarebbe certamente un’aggravante (e allora rileggere il pezzo recentemente pubblicato sul “The Guardian” che etichettava il SSC Napoli come “club roccaforte della camorra” e le successive repliche stizzite della società partenopea con tanto di invito a porgere le scuse avrebbero oggi tutto un altro sapore) ma, per paradosso, non sposterebbe comunque i termini più profondi della questione. Un tifoso ( o un gruppo di una curva o un’intera curva), ultras o meno che sia (ma su questo non sussistono incertezze…), imparentato o meno con criminali, bardato o meno con indumenti contenenti frasi deliranti, non può assurgere ad interlocutore né di un capitano della propria squadra né tantomeno delle Autorità preposte a decidere, esse sole, il da farsi.
Invece, abbiamo dovuto assistere allo spettacolo vergognoso ed avvilente di Hamsik costretto a dover render conto delle proprie intenzioni, a esponenti delle Autorità impegnati a trattare (o, quantomeno, a dover comunicare).
Lo Stato, ieri sera, per prendere una decisione, ha dovuto attendere l’assenso di soggetti non legittimati in alcun modo ad interloquire con chicchessia.
Un fatto di una gravità inaudita. Una curva che si “appropria” di un fatto tragico (un tifoso partenopeo ferito in modo gravissimo ma di cui, al momento del tam tam all’Olimpico non si conoscevano ancora generalità, autore dello sparo e, addirittura, la Questura diffondeva la nota per cui “al momento, il triplice ferimento non sembra collegato agli scontri tra tifosi ma avrebbe cause occasionali” e solo dopo quest’ultima gli animi si placheranno) altrui per dimostrare al mondo intero che c’è. Che esiste. E che può incidere. Può decidere. Può condizionare. Anche un’Istituzione come quella sportiva o quella prefettizia. Di fronte ai vertici di una Nazione impotenti.
E se poi camorra dovesse essere veramente, più di qualcuno dovrebbe porsi delle domande. Ma, soprattutto, dovrebbe cominciare a dare delle spiegazioni e poi adoperarsi per delle soluzioni concrete. Non le solite inconcludenti tavole rotonde al termine delle quali tutto rimane così com’è.
E non dimentichiamo che al S.Paolo c’è anche il precedente della presenza, immortalata in foto che han fatto il giro del mondo, di Antonio Lo Russo, uno dei “superlatitanti d’Italia” (ora arrestato), figlio di Salvatore Lo Russo, boss dell’omonimo clan, comodamente assiso sui cartelloni pubblicitari a bordo campo durante un Napoli-Parma. Continuare a sostenere di non sapere nulla al riguardo comincerebbe ad essere imbarazzante. E poco credibile.
Si potrà dire, però, che sono state le Autorità competenti ad aver avuto l’ultima parola. E che ci si è poi limitati a comunicare alla curva azzurra tale decisione senza alcuna “concertazione”. E anche fosse così, signori miei? Cambierebbe la sostanza delle cose?
Nel 1985, all’Heysel, di fronte a fatti di proporzioni ben più drammatiche (i morti lì ci furono, furono ben 39, tutti all’interno dello stadio, tutti tifosi e con dinamiche piuttosto chiare a chiunque), l’Uefa convocò i due capitani, Scirea per la Juve, e Neal per il Liverpool, in sala stampa per diffondere, via microfono, un comunicato allo stadio tutto. Non ad una fazione presente in esso. E a nessuno venne in mente di mandare Scirea e Neal a parlare con i propri capi tifosi. Si comunicò la decisione presa dalle Autorità competenti. Nessuna trattativa e neanche alcuna interlocuzione. Nessuna legittimazione di alcuno.
Che, poi, anche all’Olimpico si sia deciso, come all’Heysel, di non giocare, è solo il minimo sindacale del buon senso. Rinviare la gara (come voleva la curva napoletana) avrebbe potuto scatenare un effetto domino incontrollabile sull’ordine pubblico.
Istituzioni, sportive e non, ulteriormente offese e dileggiate da uno stadio che fischia a pieni polmoni l’inno del proprio Paese, fatto che non trova riscontro in alcun angolo del pianeta. Neppure in Rwanda dove ci si è ammazzati a colpi di machete.
Però su una cosa gli ultras hanno ragione: trattasi di uno Stato e di Istituzioni non solo non efficaci ( perché si è consentito di introdurre bombe carta e petardi? Come si è potuta permettere l’invasione di campo a fine gara?) ma anche profondamente ipocrite: impegnate da mesi a dibattere sulla portata del concetto da attribuire alla “discriminazione territoriale”, a misurare i decibel di fischi o buuu fino ad arrivare al paradosso di vietare l’ingresso a gruppi di bambini perché muniti di “striscioni non autorizzati preventivamente” (sì, a S.Siro quest’anno è accaduto anche questo).
Che ci sia un problema di fondo di inciviltà, sportiva e non, e che questa debba esser combattuta non ci sono dubbi (sulle sanzioni, poi si dovrà rivedere parecchie cose ma è un altro discorso…), ma quando si consente quello che è accaduto ieri, dopo aver sbandierato per mesi la “tolleranza zero”, suona tutto un po’ come il vecchio proverbio cinese:
“Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”.
Detto questo, volendo scendere sul piano della mentalità becera di una curva, ci si chiede che senso abbia proclamare il silenzio, ritirare gli striscioni in segno di rispetto per il tifoso ferito, se poi, dopo il fischio finale, tutto è già dimenticato, si festeggia come nulla fosse e, anzi, si coglie il pretesto per ulteriori violazioni delle regole: si invade il campo, si “disturbano” i cronisti Rai e, infine, si va sotto la curva opposta a dileggiare e offendere gli avversari sconfitti. Gli stessi cui, prima dell’inizio, si era chiesta e dai quali si era ottenuta solidarietà.
Anche il “lato cavalleresco” della mentalità ultras esce sconfitto ieri. Pur provando a ragionare con i loro medesimi (e spesso grotteschi) canoni.
Però loro un risultato l’hanno ottenuto: hanno inciso e condizionato. Anche noi che siamo costretti a parlarne oggi. Sperando (ma non ci crede davvero nessuno) di non doverne parlare più.
Ieri, Genny ‘a carogna, novello Ivan “il terribile” Bogdanov (ricordate Genova?) di cui ricorda postura, abbigliamento e atteggiamenti da capopolo, ha vinto. L’Italia tutta, ha perso.
Quantomeno la faccia.
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