Gli italiani tornano in prima linea in Iraq. 450 militari saranno schierati a difesa dei lavori sulla diga sul fiume Tigri a Mosul, danneggiata negli scontri con l’ISIS, che sarà riparata da una ditta italiana. Lo ha annunciato ieri sera il premier Matteo Renzi a Porta a porta.
Stamattina il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha corretto il tiro ad Agorà:
Non andiamo a combattere bensì a compiere interventi per preservare la diga, un’infrastruttura fondamentale per il futuro dell’Iraq, che se abbandonata rischia di provocare un grave danno ambientale.
Ma è incontestabile che la diga, come ha detto ieri il presidente del Consiglio, si trovi nel “cuore di un’area molto pericolosa al confine con lo stato islamico”, teatro di scontri continui fra le milizie jihadiste e i peshmerga curdi. In Iraq ci sono già 750 italiani, impegnati nella missione Prima Parthica, ma si occupano soprattutto di addestramento delle truppe e sono dislocati lontano dal fronte, a Baghdad e a Erbil, capitale della regione autonoma curda.
La diga di Mosul, la più grande infrastruttura idrica dell’Iraq, presenta un rischio in più: “Se crollasse – dice ancora Renzi – Baghdad sarebbe distrutta”. Alle sue spalle c’è infatti un bacino che può contenere oltre 11 milioni di metri cubi d’acqua: se questa si riversasse all’improvviso nel letto del fiume, l’alluvione sarebbe catastrofica. Oltre alle province di Ninive, Kirkuk e Salah al-Din, è facile immaginare che il muro d’acqua possa danneggiare anche la capitale, a 350 km dalla diga.
La gigantesca struttura ha riportato danni negli scontri con l’ISIS degli ultimi mesi – ad agosto 2014 è stata anche occupata – e ora è pericolante. Il restauro inizierà fra qualche settimana, appena sarà in campo il contingente di difesa, che comprende anche truppe americane.
Ari Harsin, deputato al parlamento di Baghdad che rappresenta la regione autonoma del Kurdistan, riferisce che solo per rimetterla in sicurezza potrebbero servire da 250 a 500 mila dollari.
Ad aggiudicarsi la commessa da due miliardi di dollari, come si accennava, è stata un’azienda italiana, la Trevi di Cesena.
La ditta fa capo alla Trevi Finanziaria, quotata a Milano da luglio 1999, che ha chiuso il 2014 in attivo netto di 24,4 milioni di euro. Per i primi tre trimestri del 2015, invece, i conti della casa madre sono in rosso di oltre 130 milioni.
Oltre alla Trevi propriamente detta, attiva dal 1957 nel settore dei servizi per l’ingegneria del sottosuolo, le altre divisioni del gruppo comprendono Petreven, attiva nella perforazione petrolifera; Drillmec, che produce in proprio macchinari da perforazione; e Soilmec, che fabbrica altri macchinari utili nel settore. La Iraqi Drilling Company, società controllata dal ministero del Petrolio di Baghdad che effettua trivellazioni sul territorio nazionale, è cliente di Drillmec dal 2008: ha acquistato sei impianti di perforazione pagandoli più di 100 milioni di dollari.
Trevi aveva sfiorato l’appalto per il restauro della diga già nel 2011, prima che scoppiasse l’emergenza ISIS, ma a novembre aveva fatto sapere di essere ancora in attesa del via libero definitivo da parte degli “organi governativi iracheni competenti”. Quattro anni e tante vicissitudini dopo, il nome dell’azienda italiana è ricomparso in una nota con cui gli USA esprimevano apprezzamento per la sua disponibilità.
La diga di Mosul è stata costruita nel 1983 dal regime di Saddam Hussein, e nei primi anni portava il suo nome. Era stata concepita come “grande opera” di propaganda patriottica: in quegli anni l’Iraq di Saddam, ancora alleato degli USA, combatteva una lunga e sanguinosa guerra con l’Iran dell’ayatollah Khomeini.
Il progetto era simile per concezione a quello della diga di Assuan, in Egitto, e ha avuto simili conseguenze: nel male, se si calcolano i danni ingenti al patrimonio archeologico finito sott’acqua, ma anche nel bene, in quanto fornisce elettricità a tutta la città di Mosul, che secondo gli ultimi dati raccolti prima che cadesse in mano all’ISIS aveva cica due milioni e mezzo di abitanti.
La struttura è lunga più di tre chilometri, alta fino a 131 metri, e ha bisogno di manutenzione continua per cementare le fondamenta, che poggiano su uno strato di gesso facilmente solubile in acqua.
I jihadisti hanno messo le mani sulla diga ad agosto 2014, e se fossero riusciti a mantenerne il controllo si sarebbero assicurati uno strumento formidabile per ricattare l’intero Iraq. L’hanno persa invece dopo appena due settimane, per mano dei peshmerga curdi, con l’assistenza indispensabile dell’aviazione americana. Mantengono invece il controllo della città, circa 35 km a sud e a valle dello sbarramento.
Filippo M. Ragusa
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