Adesso il re è nudo. E non alludiamo a Cesare Prandelli che, pure, di responsabilità ne ha e non poche, ma a tutto il sistema calcio italiano, a partire dai suoi vertici. Le contestuali dimissioni di Giancarlo Abete (il suo vice, Damiano Tommasi, aveva già provveduto) ne sono l’emblema. Il malessere del nostro calcio è, però, molto più profondo e viene da molto più lontano di Brasile 2014. Abbraccia il nostro campionato e le nostre squadre di club, ai minimi storici di competitività.
Il nostro ormai ex Ct di errori ne ha commessi più d’uno, e questo è evidente. Scelte discutibili già in sede di convocazione; idee poco chiare e troppo volubili in tema di modulo e sistema di gioco; gestione dello spogliatoio improntata ai canoni del buon padre di famiglia salvo scoprire, proprio in queste ore, che alcuni dei suoi figli prediletti erano un pò troppo “discoli” e poco inclini allo spirito di gruppo; un rapporto mai del tutto sereno con la stampa.
Fa molto discutere, ancora adesso, l’esclusione di Pepito Rossi, capocannoniere della nostra serie A fino al momento dell’infortunio che lo ha fatto sparire dai radar per quattro mesi. Un attaccante che, se in condizione, avrebbe le qualità per spostare gli equilibri. Appunto, se in condizione. Per Prandelli non lo era, quindi il discorso cade e su questo difficile dare torto al tecnico di Orzinuovi. E’ lui, infatti, che ha potuto valutare quotidianamente il lavoro e lo stato di forma dei preconvocati nell’iniziale “listone”. Semmai, sarebbe lecito chiedersi perchè, avendo ammesso Prandelli stesso che Rossi non avrebbe avuto chances di staccare un biglietto per il Brasile, illudere il ragazzo, salvo poi disilluderlo pur di offrire, parole del Ct, “una bella favola agli italiani“. Con tutto il rispetto per le storie di buoni sentimenti, la punta viola ha tutto il diritto di sentirsi presa in giro. Proprio in virtù dell’enorme fatica che si è dovuto sobbarcare per tentare la rimonta impossibile. De Sciglio si è infortunato appena arrivato in Sudamerica e un infortunio non è certo imputabile al selezionatore. Ma perchè non portare qualche alternativa per il ruolo di esterno basso di sinistra? Criscito, tanto per fare cognomi. Invece di dover ricorrere, da subito, a soluzioni d’emergenza come lo spostamento di Chiellini sulla fascia, non avendo più lo juventino la gamba per uscire dall’orticello dell’area di rigore salvo poi, acclarata questa evidenza, spostare a sinistra Darmian, ottimo con l’Inghilterra ma a destra, per far spazio ad Abate. E Paletta era così indispensabile? Che non fosse un fenomeno in senso assoluto era risaputo, così come che avesse disputato un campionato di primo livello a Parma. Ma aveva chiuso maluccio, in regresso di condizione. E anche questo era chiaro. E perchè ignorare fino all’ultimo Bonucci, a sua volta non un fuoriclasse, ma pur sempre un titolare fisso nel cuore della difesa campione d’Italia? Perchè non adatto a giocare in una difesa a 4? Eppure il difensore riuscì a guadagnarsi le attenzioni della Juve quando giocava a Bari in tandem con Ranocchia sotto la guida di Ventura. In una difesa a 4. E lo faceva piuttosto bene. Il passaggio dalla difesa a 4 a quella a 3 (che poi è un artificio dialettico per non dire a 5, che sa di eccessiva prudenza) è stato un altro problema, figlio dell’esigenza di rimodellare la difesa ma anche di inserire un partner d’attacco ad un Balotelli troppo solo e in progressiva crisi di fiducia. SuperMario è stato aspramente criticato, specie per le due occasioni (in realtà una, sull’altra non poteva fare molto meglio) sciupate con la Costa Rica ma, pur senza strafare, aveva fatto benino e segnato il gol vittoria con gli inglesi. Poi, in un crescendo rossiniano di nervosismo, è completamente naufragato con l’Uruguay. Ma quando ha giocato veramente male, i suoi compagni non è che abbiano fatto molto meglio. Anche l’invocatissimo Immobile, pur concessegli le doverose attenuanti per aver esordito dal primo minuto nella partita psicologicamente più delicata, non è che abbia fatto sfracelli. Anche lui costretto a peregrinare in un deserto dei tartari, comunque. Rimane ingiustificabile, in ogni caso, l’atteggiamento ostentatamente indivudualista dell’attaccante del Milan. Da corpo estraneo alla squadra. L’aver ignorato il commiato di Pirlo è solo l’episodio più eclatante. Sull’esclusione di Verratti dalla seconda sfida, quella a posteriori decisiva con la Costa Rica, poco da dire. Sarebbe servito come il pane. Ma se Prandelli l’ha lasciato fuori, evidentemente il centrocampista del Psg non aveva recuperato quanto speso a Manaus. Quindi, una scelta non tecnica e, in quanto tale, obbligata. Del resto, all’ipotesi di un Ct autolesionista non crediamo proprio. Quanto alla mancata convocazione di Totti, beh, ci sentiamo di assolvere con formula piena il Ct: se aveva la lingua a penzoloni un Marco Verratti, fresco dei suoi 22 anni, figuriamoci chi di primavere ne ha alle spalle quasi 38.
Più in generale, l‘impermeabilità difensiva, storicamente il nostro marchio di fabbrica, è ormai un pallido ricordo. L’unico difensore di caratura internazionale è Andrea Barzagli, costretto, però, da un anno a giocare con il freno a mano tirato causa una difficile convivenza con la tendinopatia. Ma, se si parla di fuoriclasse in questo reparto, bisogna risalire ai Nesta e Cannavaro. Non è un caso che quando il “cielo era azzurro sopra Berlino” i nostri migliori giocatori erano nel reparto arretrato. A parte Pirlo fu, infatti, il Mondiale di Buffon (con otto anni di meno), Cannavaro, Nesta (per le prime due partite prima che la “sfiga mondiale” lo mettesse fuori gioco con la Rep. Ceca) e poi, in sua vece, dell’impronosticabile Materazzi e dell’ancor più sorprendente Fabio Grosso, eroe per un mese prima di tornare nell’oblio. Oltre che di “Ringhio” Gattuso a centrocampo. Ma nel ruolo di umile portaborracce e frangiflutti davanti alla difesa. In ogni caso, tutti giocatori dalle spiccate caratteristiche difensive. E la crisi di vocazione nel ruolo di difensore non può essere certo imputabile al nostro selezionatore.
Prandelli dà indicazioni a SuperMario: un rapporto difficile
In sostanza, Prandelli ha sì commesso degli errori ma, tutto sommato meno gravi di quelli dei suoi giocatori in campo. E molto meno nefasti di certi atteggiamenti da “giudice etico” che mal si conciliano con il ruolo di chi è chiamato a selezionare la “crème” del calcio nazionale. Oltre che foriero di polemiche velenose e inutili circa presunte o pretese disparità di trattamento. Il codice etico, tanto per essrer chiari, non è stata una grande idea. E’ costato, di fatto, il Mondiale a Mattia Destro e di una punta centrale, lo si è visto, avremmo avuto bisogno come il pane. Mentre Chiellini, “graziato” da una generosa interpretazione data da Prandelli al suo “incontro ravvicinato” con Pjanic, in Brasile ci è andato ma, spesso impunito in campionato, ha dovuto misurarsi con un metro arbitrale ben diverso in campo internazionale. Detto questo, non si vuole certo far passare il pur bravo Destro come il possibile salvatore della patria azzurra. Rimane che il codice etico rappresenta un’inutile e pericolosa sovrapposizione con l’operato della giustizia sportiva.
Prandelli, tutto sommato, ha meno responsabilità di chi il nostro calcio è chiamato a governarlo dai piani alti. Come Giancarlo Abete, ora ex presidente della Figc. Le sue di dimissioni sono state un pò meno annunciate di quelle del Ct, ma non meno doverose. Anzi. E’ la logica conseguenza di chi pensa di poter gestire la “res calcistica publica” facendo proclami ma poi rinviando a data da destinarsi qualsiasi decisione importante. Salvo, in mancanza di riforme ( per dirne solo una: ha ancora senso continuare ad appesantire la serie A con 20 squadre quando anche 18 erano troppe?) e in pendenza di obbrobri giuridici (come la distinzione ridicola tra discriminazione razziale “tout court“ e discriminazione territoriale che ha generato confusione, è stata applicata in modo disomogeneo ed è riuscita persino nell’impresa di compattare tifoserie acerrime rivali), demandare il giudizio sul suo operato ai risultati del campo. Cosa, francamente, assurda se si parla di dirigenti e non di uomini di campo. Ma tant’è. Bene, adesso anche i risultati del prato verde sono arrivati. Impietosi. Quando, in realtà, sarebbero stati sufficienti i dati sullo stato di salute (?) del nostro calcio divulgati nel report di maggio. Ed erano avvilenti.
Chiudendo il discorso sulla nostra nazionale, ci siamo illusi, dopo la comunque ottima prestazione con l’Inghilterra, di avere una squadra in grado di esprimere un livello tecnico decisamente superiore a quello della nostra serie A. Che è molto modesto. Se la Juve vince lo scudetto totalizzando la cifra record di 102 punti, con ben 17 lunghezze di vantaggio su una Roma, comunque straordinaria, vuol dire che attorno c’è poco. C’è il Napoli che, terzo con velleità di aggancio alla seconda piazza cullate sino a marzo, si è in ogni caso consolato con la Coppa Italia e ha fatto vedere cose egregie in Champions. Poi, il nulla. E’ vero, anche all’estero ci sono squadre che hanno dominato con poche resistenze altrui, come il Bayern in Germania, ma la salute complessiva del movimento tedesco è fuori discussione: stadi pieni, incassi floridi, giovani su cui gli allenatori puntano senza timori, nazionale brillante. E, soprattutto, non dimentichiamolo, 13 mesi fa la finale di Champions era Bayern-Borussia Dortmund. E, a proposito di finali-derby, quest’anno abbiamo avuto addirittura quello cittadino di Madrid. In Spagna, la nazionale ha fatto un flop più assordante del nostro ma non esiste una crisi del tiki taka, nè del loro calcio che, al contrario, sprizza salute da tutti i pori. E’ piuttosto la fine di un ciclo di interpreti di quel tipo di gioco, segnatamente di quelli di provenienza Barcellona. 7/11 della “roja” titolare sono (erano, ormai) blaugrana. Il contributo di Real e Atlètico, limitato ai restanti 4 titolari. Quello del Siviglia, vincitore dell’Europa League, nullo. La nostra competitività nelle coppe europee non è mai stata, invece, così bassa: siamo spalla a spalla con il Portogallo nel ranking Uefa ma Spagna, Inghilterra e Germania le vediamo ormai con il binocolo .
Al netto degli scandali che non ci facciamo mai mancare, c’è il problema della scarsa liquidità delle nostre società, anche quelle più in vista. Perlomeno rispetto ai “califfi” che spadroneggiano altrove. E che vengono sanzionati in misura risibile dall’Uefa. Ma, in casi del genere, anzichè piangersi addosso, si dovrebbe reagire con la forza delle idee, mancando quella dei denari. E con il coraggio. Per esempio, quello di puntare decisamente su giovani e vivai. All’estero, non si vive recitando il mantra dell'”usato sicuro”. E, intanto, i pezzi migliori del nostro calcio, nonchè giovani di talento, continuano a migrare verso altri lidi. Ciro Immobile è l’ultimo esempio solo in ordine di tempo. Presto potrebbe seguirlo anche Mario Balotelli e vogliamo scommettere che, magari in maglia “gunner”, diventerebbe un SuperMario in servizio permanente effettivo?
Va poi sottolineato anche che, mentre l’Italia dava il suo mesto addio al Brasile, esalava l’ultimo respiro Ciro Esposito. Perchè in Italia, sembra assurdo dirlo nel 2014, di calcio si può morire. La violenza, molto più che un preteso razzismo molto esibito più che sentito, è un problema. Reale. Che accomuna molte nostre tifoserie a quelle più pericolose del pianeta tanto da renderle meno “temute” solo di quelle slave (i “Grobari” del Partizan, i “Delije” della Stella Rossa, la “Torcida” dell’Hajduk e i “Bad blu boys” della Dinamo Zagabria), greche, turche (Galatasaray e Fenerbahçe), brasiliane e delle famigerate “barras bravas” argentine. Le curve in Italia sono terreno fertile per cultori di estremismi pseudopolitici e, spesso, ostaggio della criminalità organizzata (Genny ‘a carogna ci ha ricordato che la camorra comanda anche negli stadi). Il 28 ottobre 1979 moriva Vincenzo Paparelli e neanche un anno dopo deflagrava il calcioscommesse. Stiamo assistendo ad un tristissimo remake. Occorrono interventi seri. E urgenti. Il presidente del Consiglio li aveva annunciati all’indomani dello scempio della finale di Coppa Italia sull’onda emotiva del momento promettendo che avrebbe preso provvedimenti dopo le elezioni europee. Stiamo ancora aspettando.
Albertosi è appena stato battuto da Pak Doo Ik: Corea del Nord-Italia 1-0
In chiusura, si è giustamente evidenziato che occorre risalire al 1966 per trovare una seconda eliminazione di fila degli azzurri alla prima fase di un Mondiale. Oggi come allora? No, in quegli anni avevamo Inter e Milan che dettavano legge in Europa e nel Mondo.
L’unica consolazione è aggrapparsi all’antico adagio che vuole che “toccato il fondo, non si può che risalire“. Ma attenzione alla legge di Murphy e ai suoi tanti corollari.
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