A Taranto quando un altoforno diventa protagonista, nello stabilimento siderurgico più grande d’Europa va in scena un dramma sociale, politico e ambientale in grado di bruciare tutto, tranne la ghisa.
Ma le vicende dell’altoforno che in questo momento in base alle leggi italiane potrebbe mandare in galera qualunque manager, indipendentemente dalla sua patente pubblica o privata, non riescono più a nascondere una verità ormai sempre più evidente
E cioè che per colpa dei governi succedutisi negli ultimi sette anni la questione delle acciaierie di Taranto è diventato un bubbone esattamente come le neoplasie che insieme alla produzione di coil, provoca ad operai e cittadini tarantini.
In queste ore, nella confusione più totale e dopo la scomparsa dei vertici Arcelor Mittal che di fatto hanno riconsegnato al governo le chiavi e i problemi degli stabilimenti senza onorare gli impegni presi, il premier Conte, al cospetto di maestranze e sindacati ha candidamente ammesso: “Mi dispiace, ma, al momento, non ho in tasca nessuna soluzione per voi”.
Una dichiarazione di impotenza che suona come una pericolosissima resa per il futuro di undicimila operai e per il destino della stessa Taranto che nell’acciaieria ha la sua prima e più importante fonte di lavoro.
Ma è proprio sulla sorte di quel maledetto altoforno numero due che si aperto il tragicomico balletto delle responsabilità che hanno portato la ex Ilva sull’orlo della chiusura.
Basta però rivedere brevemente il susseguirsi di ambiguità politiche, pasticci organizzativi e bugie legali per comprendere che la questione non poteva che finire come è finita.
Ripartiamo dagli accordi sottoscritti nella trattativa tra esecutivo e Arcelor intese richiamate in questi giorni quando i manager del gruppo hanno cominciato ad accampare pretesti per non restare e fuggire a gambe elevate dopo l’ultima provocazione dei “cinquemila esuberi” scagliata all’ultimo momento sulla scrivania di Conte
Al rigo 12 del comunicato di ArcelorMittal, la società franco indiana era stata chiara: l’Ilva non è in grado di rispettare l’ultimatum della magistratura circa la messa a norma dell’altoforno numero 2, quello per capirci, dove, nell’agosto 2015, morì l’operaio Alessandro Morricella, investito da una grande fiammata dovuta a un malfunzionamento dell’impianto.
A seguito di quell’incidente il Tribunale penale di Taranto aveva obbligato i Commissari straordinari dell’Ilva a completare delle prescrizioni in tema di sicurezza e manutenzione. Il tutto doveva effettuarsi entro il 13 dicembre 2019. Tale data, osserva l’ArcelorMittal, è “impossibile da rispettare per gli stessi Commissari”.
Un presagio che all’amministratore delegato dell’ArcelorMittal, Lucia Morselli, non era sfuggito. Conoscendo le difficoltà alla realizzazione delle bonifiche, era stata lei stessa a fare delle pressioni sull’allora ministro del MISE, Luigi Di Maio, per ottenere delle garanzie giudiziarie.
Lo stesso ministro era intervenuto, quindi, sull’art. 2 del d.l. del 2015, ampliando lo spettro delle condotte che non dovevano far sorgere responsabilità penali per gli affittuari e gli acquirenti dell’impianto siderurgico.
Tuttavia in sede di conversione del suddetto decreto, una volta cambiato il governo, si è tolta la modifica alla norma, sopprimendo l’articolo che ampliava lo scudo penale.
Così lo scudo penale è diventato da “grande” a “piccolo” e la società ArcelorMittal, ormai priva di tutele giudiziarie, è corsa ai ripari. Con la lettera di recesso partita, poco prima della scadenza con gli impianti riconsegnati maldestramente ai commissari straordinari come se nulla fosse.
Una storia di lunga data dunque quella della sicurezza ambientale e dei lavoratori dell’impianto tarantino che i governi degli ultimi anni non ha mai saputo gestire in maniera seria. Cominciò il disastroso Monti per toccare l’apice con Gentiloni e Renzi e per finire poi a Di Maio e Conte.
Basti pensare per esempio che la messa a norma di tutti gli impianti e l’adozione per gli altoforni delle migliori tecnologie disponibili doveva terminare nel luglio 2014, secondo il cronoprogramma dell’Autorizzazione Integrata Ambientale ILVA.
Ma i lavori, cominciati pro forma nel 2012, avevano segnato continuamente il passo con rinvii e bugie che hanno rasentato il grottesco.
Partendo dalla legge “Salva Ilva” firmata dall’allora ministro dell’ambiente Clini, i vari governi che si sono succeduti, hanno infatti cambiato quelle regole con proroghe e deroghe continue. Per arrivare ad un vergognoso nulla di fatto. Da qui poi l’adozione dell’immunità penale che invece di accelerare ha complicato enormemente le cose portando l’Ilva in un vicolo cieco.
Gli attuali impianti in funzione sono dunque a rischio e pericolo di chi li fa funzionare. Numerose sono le carenze e le mancanze di requisiti minimi per garantire la sicurezza attraverso l’adozione di certificati di prevenzione incendi degli altoforni, delle cokerie e degli altri impianti ad alto rischio.
Ad aggravare il tutto poi, i numeri della produzione. Ed anche qui grazie a piani industriali taroccati tanto per ricevere gli aiuti di Stato altre bugie e altri omissis imperdonabili.
Ad oggi infatti l’Ilva registra una perdita continua della produzione siderurgica, secondo l’aggiornamento dell’analisi econometrica compiuta dalla Svimez per Il Sole 24 Ore. L’impatto sul Pil nazionale fra il 2013 e il 2018 ha registrato una perdita secca compresa fra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi di punto di ricchezza nazionale.
Un disastro senza appello, con una politica che da 7 anni è servita solo a tirare a campare e a spostare sul governo successivo la “patata bollente”.
Uno scaricabarile continuo, che vede ora, nelle mani del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ultima possibilità di intervenire su uno stallo da profondo rosso. Una specie di missione impossibile in quanto adesso il governo (peraltro molto diviso), nell’arco di qualche giorno, dovrà trovare accordo e soldi per tre obiettivi irrinunciabili: salvare il posto di lavoro dei dipendenti, salvaguardare le strutture industriali e la salute di chi ci lavora, senza dimenticare l’ammonizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia “per non aver protetto e tutelato” i cittadini di Taranto.
Barbara Ruggiero
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