Si è consumato il primo round (ormai la vicenda è sempre più simile ad un confronto pugilistico) del post 26 maggio e ci lascia in eredità una situazione decisamente diversa dalle immagini di quella indimenticabile (per gli uni) e indimenticata (per gli altri) domenica primaverile. Stavolta è toccato ai giocatori giallorossi andare a raccogliere gli osanna di una Curva Sud in festa ma che non ha dimenticato, semmai ha cominciato a perdonare. Giocatori e dirigenti biancocelesti delusi ma sempre pronti a ricordare ad ogni piè sospinto che quel 26 maggio “il” derby lo hanno vinto loro e che rivincita non è contemplata né contemplabile. Anche la Curva Nord, cui non difetta certo l’originalità, aveva pensato bene di ribadire il concetto: privata della possibilità di esibire la coreografia originaria imperniata su palloncini ad elio che avrebbero dovuto sollevare (rigorosamente “in faccia” ai dirimpettai) la Coppa (sì, sempre quella del 26 maggio), ha fatto il proprio ingresso dopo cinque minuti di gioco lasciando nel frattempo uno striscione eloquente: “Ah, dimenticavo c’è il memorial derby (indovinate quale?)…finisco la birra e poi entro!”. Dall’altra parte, Balzaretti, l’inatteso eroe di giornata, in lacrime dopo la rete apriscatole dell’1-0, e poi un profluvio di commenti ironici da parte di ringalluzziti tifosi romanisti su blog, forum, profili facebook e chi più ne ha più ne metta. Tutto immancabilmente ruotava, è ruotato e ruota tutt’ora attorno a quel 26 maggio. E’ il fascino di una stracittadina strettissima parente di un palio di Siena vissuto dalle più acerrime tra le contrade. A suo modo uno spettacolo unico. Spesso superiore a quello che si vede in campo. E in campo si è visto, francamente, pochino. Una Roma tutt’altro che arrembante e assetata di rivincita nel primo tempo, una Lazio polarizzata solo sul controllo della gara con sporadiche accelerazioni come a voler difendere un vantaggio accumulato all’andata (sarebbe sempre quella del 26 maggio) come se l’obiettivo fosse il pari. Garanzia di intangibilità della supremazia cittadina. Una Roma che giocava benino (ma niente di trascendentale) e correva, una Lazio che giocava malino (ma neanche troppo) ma, salvo Candreva, camminando. Una ripresa che si è decisa dopo una decina di minuti di sfuriata biancoceleste con una Roma che aveva autonomia di 90’ a fronte dei 60 scarsi degli uomini di Petkovic che hanno anche smesso di camminare. E senza poter accampare la scusa dell’impegno infrasettimanale di Europa League ( in campo con il Legia erano scesi 7/11 diversi almeno al fischio d’inizio). La differenza è stata tutta qui. Ulteriormente dilatata da una prestazione d’autore di un Totti molto più ispirato sulla fascia che non nell’imbuto centrale. Un derby sostanzialmente brutto. E condizionato. Al di là di assenze, errori arbitrali (un rigore non dato alla Roma, un mancato primo giallo a Florenzi e un’espulsione assurda comminata a Dias) e attuale divario tecnico e atletico tra le due contendenti. Condizionato da quel 26 maggio. Lo ha perso la squadra che lo ha affrontato con lo spirito di poter amministrare un vantaggio iniziale che, invece, esisteva solo nella mente dei tifosi. Da quel 26 maggio, che resterà comunque indelebile nella memoria di tutti, sono trascorsi quasi quattro mesi. Sono tanti. E questa è un’altra stagione. A Formello qualcuno dovrebbe mostrare a giocatori e dirigenza un banale calendario a ricordarlo. E in questo aspetto si coglie nitida la linea di confine tra l’aspetto fascinoso del derby e quello più provinciale, nel senso deteriore del termine. La Roma, anche se domenica lo ha dimostrato solo nell’ultima mezz’ora e contro un avversario che non c’era più, ha trovato gli stimoli per ripartire dopo un’estate di contestazioni anche rabbiose. La Lazio è rimasta a quel 26 maggio. Comprensibile per la tifoseria. Meno per società e giocatori. Ed è netta la sensazione che se quel 26 maggio il vincitore fosse stato diverso, quest’ultimo derby lo avrebbe vinto l’altra “contrada”. Signori, il derby è una partita straordinaria e diversa da tutte le altre e quello del 26 maggio straordinariamente diverso anche da tutti gli altri derby, ma la storia di una società non si può esaurire lì. Vogliamo crescere, tutti? Daniele Puppo
Napoletano, 44 anni, giornalista professionista con 17 anni di esperienza sia come giornalista che come consulente in comunicazione. Ha scritto di politica ed economia, sia nazionale che locale per diversi giornali napoletani. Da ultimo da direttore responsabile, ha fatto nascere una nuova televcisione locale in Calabria. Come esperto, ha seguito la comunicazione di aziende, consorzi, enti no profit e politici. Da sempre accanito utilizzatore di computer, da anni si interessa di internet e da tempo ne ha intuito le immense potenzialità proprio per l'editoria e l'informazione.
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